Un inetto che si erge a divinità

“La vita non appare priva di significato, semmai ne è così ricca che il suo significato deve essere costantemente ucciso per il bene della coesione e della comprensione”.

Ci sono romanzi che si limitano a raccontare vite, più o meno reali. Poi ci sono romanzi che raccontano la Vita, anche quando i protagonisti appaiono lontani, non solo geograficamente, dal lettore.   È il caso di “Karoo” il romanzo postumo di Steve Tesich (mancato nel 1996), pubblicato negli Stati Uniti nel ’98 e  in Italia da Adelphi soltanto nel 2014.

Steve Tesich, serbo naturalizzato statunitense,   sceneggiatore, premiato con l’Oscar, drammaturgo e scrittore, ci regala un personaggio disturbante,  a tratti sgradevole e odioso, ma fortemente umano. Saul Karoo, disgustosamente ricco, grazie alla propria abilità di “scribacchino”, è consapevole di non essere un artista. Da tempo ha messo da parte il sogno di scrivere un proprio romanzo,  tuttavia a Hollywood   è lo “scriptor doctor” più ricercato e retribuito,  perché riesce a trasformare un film (anche di grande valore artistico) in una pellicola da botteghino.

Saul è consapevole dei proprie manchevolezze e dei propri limiti , sia professionali che personali, ma come un inetto si lascia vivere, preferendo la continuità di un’esistenza, comunque triste e deludente, piuttosto che rimediare agli errori ben noti. Fino a quando non accade qualcosa che lo spinge a diventare artefice del proprio destino, ma che lo rende (novello Ulisse) colpevole di Hybris, perché non è possibile decidere  per gli altri. Anche quando si tratta delle persone amate e si vuole agire per la loro felicità.

 Con leggerezza, solo apparente, però, e ironia  per mezzo di  “Karoo” Steve Tesich ci racconta la vita con il suo carico di illusioni, delusioni, sogni irrealizzati, errori, vigliaccherie, egoismi (l’elenco potrebbe proseguire, ancora, ma non voglio togliere al lettore il piacere della scoperta, né risultare tediosa). 

Fino alla tragedia che l’autore abilmente lascia intravvedere nel corso della narrazione, insinuando un sospetto che il lettore vorrebbe scoprire infondato e che condurrà anche ad altro, ad un dolore che non concede vie di fuga né riscatto.

A proposito dell’amore

“Ho passato l’infanzia e l’adolescenza a fare l’innamorata: sognavo la mia vita futura leggendo romanzi rosa, e gli unici film che ritenevo degni di nota erano quelli che mettevano in scena una storia d’amore più o meno complicata e felice, sempre passionale. Da ragazza ho continua a cercare il grande amore: fare l’amante non mi interessava nemmeno allora; l’amore senza legami lo trovavo insulso. Eppure, dopo aver avuto i miei figli, non sono mai passata alla tappa successiva. non ho mai cambiato categoria per diventare una madre. Così, pur facendo del mio meglio, la maggior parte del tempo sono troppo occupata a fare l’innamorata per essere una brava madre”.

(Pag.114)

Chi mi segue lo sa: non parlo mai di libri che non mi sono piaciuti, sebbene nel mio nuotare nel mare magnum dell’editoria, in particolare di quella italiana, ne incontri, fin troppo spesso,   brutti e scritti male. Tuttavia,  se parlo di “Mio marito” non significa che si tratti di un romanzo che ho amato o che mi sia particolarmente piaciuto. Anzi, ti devo confessare, caro lettore del mio blog, che dopo averne completato la lettura, già da parecchi giorni, ho provato un profondo senso di delusione assieme ad una acuta angoscia. Ti starai chiedendo, certamente, la ragione.

Si tratta, indubbiamente, di un libro scritto bene, leggibile e, almeno inizialmente, divertente. Se con fosse che, proseguendo nella lettura, pagina dopo pagina, cominci a sospettare che l’io narrante mostra i segni di una grave psicosi che andrebbe curata con metodi differenti da quelli che di fatto applica.

Scopri una donna che (pur avendo tutto: bellezza, ricchezza, cultura

– insegna inglese, part time, e svolge la professione di traduttrice – un marito elegante, raffinato, bello, due figli straordinari) è di fatto una psicotica, incapace di amare (nonostante le continue e ossessive dichiarazioni d’amore nei confronti del marito), egoista, fedifraga.

Certe trovate, che all’inizio potrebbero sembrare simpatiche, espressione di ordine sistematico (i quaderni tematici colorati) si rivelano per quello che sono: prove tangibili di una psicosi pericolosa ed inquietante. Ignoro, non ho voluto approfondire, se vi siano elementi autobiografici (qualcuno certamente), ma mi ha disturbata molto l’immagine del matrimonio che vien fuori alla fine del romanzo. Perché niente è mai come appare.

La conclusione, infatti, si rivela l’elemento devastante dell’intero romanzo: il matrimonio, direi meglio, più in generale, la relazione di coppia diviene una farsa, perché fondata sulla recita di ruoli che nascondono la reale natura dei protagonisti, la dipendenza psicologica, il godimento per punizioni e umiliazioni continue.

L’amore che non basta

Anna, oramai anziana, un giorno non ha fatto più ritorno a casa dove il marito, Severino, l’ha attesa, giorno dopo giorno. Fino a quando, un anno dopo, in un grigia alba invernale, trascinando una vecchia valigia, Severino parte dal porticciolo di Stromboli (dove si erano trasferiti dopo la pensione) per     ritrovare  e riportare a casa la donna della sua vita, perché questo è stata Anna per Severino.  

Per un intero anno, Severino si è preparato al viaggio, con dedizione e rigore, passeggiando nell’isola per preparare un corpo stanco e malato al lungo pellegrinaggio lungo la Sicilia orientale, in una sorta di via crucis, di città in città, tra i luoghi vissuti e, apparentemente, solo apparentemente, condivisi: Librizzi, Siracusa, Oliveri…  Nelle città abitate e sofferte, incontrando gli amici della giovinezza, riannodando i fili di una vita, rievocando brevi attimi di gioia e dolori profondi,  Severino scoprirà una verità che negli anni gli era sfuggita, ma che, molto probabilmente, non aveva saputo leggere.

Accompagnando Severino, il lettore incontrerà, senza maschere né finzioni,  Anna, seguendola dagli anni della fanciullezza alla maturità. Il viaggio di Severino è dunque il pretesto per  ricostruire la storia di Anna, attraverso un alternarsi di voci e intrecci,  felicemente costruiti dall’autore, un esordiente che promette di regalarci altre opere di grande valore narrativo. Mentre Severino si muove nel presente della ricerca, riconquistando e rileggendo il tempo vissuto, vediamo Anna vivere una vita che non ha scelto, vittima della volontà altrui, accettata per non fare soffrire chi le vuole bene.

   “Le mamme a volte sono egoiste.

Non lo fanno apposta, Dio le mette al mondo per proteggere i figli

e quando è ora non sanno come si fa a lasciarli andare”. 

È  la riflessione che Severino regala ad una giovane donna incontrata all’inizio del viaggio, una riflessione che, come accade a chi ha tanto vissuto, è frutto dell’esperienza di una vita, del dolore sperimentato nella propria vita  o in quella di altri. Nel caso specifico nella vita di Anna, costretta a soffocare il desiderio di vivere come una donna libera e seguire la volontà della madre per la quale:

“Na fimmina nasce per essere mugghìeri di un uomo e mamma d’un figghiu”.

Così Anna, dopo avere provato a sottrarsi,  è stata moglie, cedendo all’amore di Severino; ha cercato disperatamente la maternità e quando ha messo al mondo (facendosi beffa della medicina che la voleva sterile) il proprio figlio avrebbe voluto legarlo a sé, condizionandone l’esistenza, decidendo per lui, pur sapendo che “Il bene di una mamma è pericoloso, può essere acqua e zucchero, ma pure veleno”.

Matteo Corrente, pagina dopo pagina, con profondità e pietas ci regala il ritratto di una donna che non ha saputo ribellarsi, probabilmente, come dice Severino, per mancanza di coraggio. Una donna, comunque, che non può essere giudicata, ma che suscita nel lettore sentimenti di compassione  (inteso nel significato più alto, “patire con”) empatia e solidarietà.

Niente resterà impunito

Il racconto doloroso di una generazione perduta

Alberto Boscolo è uno studente, uno come tanti:  dopo la maturità (superata con il massimo dei voti) si è iscritto alla Facoltà di Lettere e Filosofia alla Statale di Milano e, come tanti giovani, si è lasciato affascinare dal sogno  di un mondo in cui non ci siano sfruttati e sfruttatori . Un sogno che in pochissimo tempo lo porta a superare i limiti della legalità , aderendo alle Brigate Rosse e partecipando  (in maniera attiva e convinta) alla lotta armata.

Alessandro Bertante si fa da parte per dare voce direttamente al suo protagonista, lasciando che sia lui a ricostruire il percorso che segna la trasformazione dello “studente sbarbato della Statale”, impegnato nel volantinaggio  davanti alla fabbrica della Sit Simens, nel  complice e ideatore (accanto a Renato Curcio) di feroci azioni criminali firmati dalle Brigate Rosse.

Il racconto  ci conduce nell’Italia degli anni Settanta tra giovani che convivono con i loro figli in case occupate, condividendo il cibo e gli ambienti, con i nuovi arrivati, spesso sconosciuti. Giovani che avevano fatto loro il mito di un Unione sovietica di fatto  mai esistita:

“Inneggiavano a Lenin, a Mao e a Stalin 

ma facevano già parte del nemico

e  alcuni dei dirigenti più scaltri

lo sapevano con certezza ma gli andava bene lo stesso” .

Il passaggio alla lotta armata, che ha segnato la storia del nostro Paese in maniera ancora oggi indelebile, scaturisce dall’attentato di Piazza Fontana, letto già allora come la prima strage di Stato, e dal presunto suicidio dell’anarchico Pinelli. Una lettura, quella del suicidio, immediatamente negata dal gruppo di Bertante per il quale lo Stato “ammazzava impunemente”. Ragione per cui si diffuse la convinzione in   “molti compagni che non era più tempo di farsi uccidere senza combattere”.

Quello che accadde successivamente (rapine sanguinarie per finanziare il movimento, sequestri lampo attentati dimostrativi  fino al sequestro Moro) è storia  condivisa. Come sia maturato tutto ciò, quale sia stato il costo pagato da giovani come Alberto Boscolo viene raccontato in un misto di storia ed invenzione da Alessandro Bertante che , utilizzando fonti e documenti storici, ricostruisce con l’estro del narratore, il percorso di giovani come Alberto Boscolo, un’intera generazione bruciata da un’ideologia, spesso non adeguatamente supportata:

“E poi c’ero io che non avevo una visione ideologica precisa,

ma mi lasciavo trascinare dalla voracità dei vent’anni e dall’urgenza dell’azione …

cercando di vivere la propaganda armata come momento politico principale

e, in qualche modo fondante, della mia visione rivoluzionaria”.

Inquieta fratellanza

Serge, colui che dà il titolo al romanzo, è il maggiore di tre fratelli – di origine ebraica e  oramai adulti – ciascuno dei quali porta con sé  il peso di una vita già vissuta, con il carico di errori e delusioni, di promesse mancate, di sogni non realizzati. La storia di Serge, apparentemente il più spregiudicato, intraprendente fin da ragazzo, capace di inventare attività lavorative puntualmente destinate al fallimento, è narrata da Jean, il secondogenito, che non ha mai brillato per iniziativa personale, è  cresciuto all’ombra del fratello e fin da ragazzo sembrava destinato all’anonimato.

“Io a mio padre non interessavo.

Ero il classico ragazzo senza grilli per la testa,

che a scuola si impegnava,

faceva ogni cosa come suo fratello

e non aveva la minima personalità”

Jean è un uomo generoso, disponibile nei confronti della famiglia, di amici e  parenti ormai vecchi e malati, pronto a donarsi – fino a  fare da padre al figlio della propria ex, un bambino problematico, che fatica a socializzare (autistico?) – ma incapace di cambiare la propria vita. Eppure è  consapevole di ciò che non funziona;  sa cosa dovrebbe fare per essere felice, ma non ne ha il coraggio. O, probabilmente, non vuole cambiare.

Infine, c’è Nana, la bimba vezzeggiata e amata da mamma e papà, la preferita, ma indipendente nelle scelte, soprattutto in quelle sentimentali, tanto da deludere tutti. Nana è una donnina petulante, ma appagata e, apparentemente, felice delle proprie scelte.

Nel romanzo il tema centrale, ma non certo l’unico e comunque non il più importante, può essere individuato nel rapporto tra i  fratelli. O, meglio ancora, in quel che rimane della famiglia d’origine (luogo di conflitti e incomprensioni, anche devastanti) quando i genitori scompaiono e i fratelli sono  diventati altro rispetto a quelli che condividevano gli spazi della fanciullezza, con tutto ciò che questo comporta. Ed è proprio sull’«altro» che esplodono i conflitti, anche insanabili, che mettono a dura prova i legami di fratellanza, perché, come dice Jean:

“I legami fraterni si sfilacciano,si disperdono,

finiscono per non ridursi ad altro

che a un sottile nastrino di sentimenti o conformismo”.

Per Serge, Jean e Nana le tensioni rischiano di implodere durante un viaggio ad Auschwitz-Birkenau intrapreso su richiesta di Joséphine, figlia di Serge, che sente il bisogno di vedere il luogo in cui i propri parenti sono stati tragicamente uccisi, insieme con altri milioni di ebrei. I tre fratelli si ritrovano così a fare i conti con la Storia in un contesto in cui emergono le contraddizioni della memoria, vissuta da taluni con fanatismo quando non con la superficialità del turista improvvisato.

Sono certamente queste le pagine più belle del romanzo nelle quali Yasmina Reza – parigina di origine ebraica, padre iraniano, madre ungherese – riesce a dare il meglio di sé, facendo emergere (senza retorici sentimentalismi) il dramma di milioni di bambini, donne e uomini.

Ed è sempre durante il viaggio che emerge la sofferenza ed il dolore di Serge che  – nell’indifferenza nei confronti di ciò che vede e nell’impazienza per l’entusiasmo della figlia e della sorella – mostra il tormento che accompagna la sua solitudine, abilmente mascherato nelle riunioni di famiglia.

Il Potere Taumaturgico della scrittura

Premio Campiello 2022

L’autore, appena venticinquenne, fa il suo ingresso nel mondo letterario con un romanzo che, come nelle favole della tradizione, ha come protagonisti gli animali, con i vizi, le virtù, i sentimenti degli uomini. Disperati e speranzosi;  appassionati e crudeli;  devastati dalla vita, ma capaci di guardare oltre e reinventarsi;  sognatori e realisti proprio come gli uomini. I personaggi di questa storia sono faine, cani, maiali, tassi, ricci, volpi che allegoricamente ci rappresentano e ci dicono cosa siamo e cosa possiamo essere.

L’io narrante e protagonista è una faina, Archy:  il padre è stato assassinato da un umano che lo ha sorpreso a rubare, lasciando la moglie e i figli nella disperazione di un inverno che rende difficile, se non impossibile, cacciare. Il bisogno lascia poco spazio all’amore materno e agli affetti familiari, consumati dalla necessità di sfamare la nidiata, trascurando, chi particolarmente debole, sembra avere poche possibilità di sopravvivenza.

Così, quando, Archy, cadendo da un albero nel tentativo di portare a casa delle uova di uccello, rimarrà zoppo, sarà ceduto dalla mamma  alla  vecchia volpe usuraio. Ha inizio per Archy la sua nuova vita, il primo di tanti cambiamenti che caratterizzeranno la sua esistenza:

“La vecchia volpe decise di insegnarmi tutto quello che sapeva”.

In poco tempo, nonostante i maltrattamenti, Archy diventa l’apprendista della volpe che, intuendo di essere oramai alla fine della propria vita, desidera un erede a cui lasciare i beni accumulati in anni di usura violenta. In particolare, però, la volpe insegna ad Archy a  scrivere, a leggere ed interpretare un libro, il Libro, una bibbia rubata negli anni della giovinezza.

Alla lettura della bibbia la volpe ha dedicato parte della propria vita, convincendosi  di essere “un figlio di Dio” e decidendo di raccontare la propria esperienza, una vita di rapina e violenza con cui fare i conti, prima di superare la soglia dell’esistenza per andare verso un oltre di cui non si ha consapevolezza.

Il romanzo, così, supera i confini della favola, per diventare un libro sulla scrittura, su questa capacità, tutta umana, che ci rende  “figli di Dio”, regalandoci l’eternità, come dice Archy:

“mi fece riflettere sul potere della scrittura, quanto fosse immune al tempo”.

Per cui, oramai, vecchio, stanco e solo, disperatamente solo, Archy decide “che l’unico compromesso prima di sparire era raccontarmi”, fino a scoprire  il potere taumaturgico della scrittura:

“Più scrivo, più l’ossessione della morte si fa leggera.

La sconfiggo ad ogni pagina, specchiandomi nel colore, nelle linee che traccio.

Dio porterà la mia anima chissà dove, disperderà il mio corpo nella terra,

ma i miei pensieri rimarranno qui, senza età, salvi dai giorni e dalle notti”.

Affiderà il suo racconto autobiografico, insieme con la bibbia avuta in dono dalla volpe, al suo ultimo amico, Klaus, come un tesoro prezioso, da tenere sempre con sé:

“Ti diranno tante verità, ti faranno male,

ma non potranno mai ingannarti su quello che sei,

su quello che siamo”.

Quando l’infanzia non aveva voce

Narratrice e poetessa, Tove Ditlevsen è la scrittrice danese nota soprattutto per il suo impegno contro i soprusi e le violenze nei confronti dei bambini, oltre che per l’attenzione nei confronti della condizione femminile che in Infanzia assume i colori della confessione.

Primo volume della “Trilogia di Copenaghen” considerata l’evento letterario dell’anno, la trilogia è stata salutata come un capolavoro che si unisce al coro di voci femminili che, da diversi Paesi, hanno raccontato e denunciato la loro condizione.

Tove vive la propria Infanzia in un piccolo bilocale di Vesterbro,  quartiere operaio di Copenaghen, tra mille problemi causati, in particolare, dalle difficoltà economiche che la famiglia deve affrontare: il padre è  spesso senza lavoro a causa della propria militanza comunista. È lui che spinge Tove alla lettura, ma, quando la bambina gli confesserà  il sogno di diventare poetessa,  le dice, senza mezzi termini, che non è un lavoro da donne. Nonostante ciò, Tove continuerà a scrivere segretamente poesie su un quadernetto che nasconderà gelosamente per non essere derisa.

La sua formazione è affidata alla madre, rancorosa e distratta, incapace di accoglierla e comprenderla causa di una profonda sofferenza che la accompagnerà sempre:

Il mio rapporto con lei è stretto, doloroso, traballante,

e se voglio un segno d’affetto devo cercarlo io.

Qualunque cosa io faccia, la faccio per compiacere lei,

per farla sorridere, acquietare la sua rabbia.

A ciò bisogna aggiungere la difficoltà di comprendere il mondo degli adulti dai quali giungono mezze frasi e rivelazioni che Tove non riesce a decodificare: due mondi, quello di adulti e bambini nella prima metà del Novecento, che non riescono a incontrarsi, a causa di segreti che la bambina non comprende. Ci penserà la sua  amica  Ruth, bambina senza regole e spregiudicata, alla quale si accosta per il suo bisogno di essere accolta e considerata, a svelarle il mondo degli adulti. Tove, però, avverte una profonda distanza da Ruth, scavata ulteriormente dal tentativo di agire in maniera spregiudicata e libera come l’amica, ma condannandosi al fallimento  per la paura e l’insicurezza che le sono compagne.  

Con linguaggio semplice ed immediato, Tove Ditlevsen ci guida nel proprio mondo, dove:

“L’infanzia è lunga e stretta come una bara, e non si può uscirne da soli”.

L’infanzia di Tove Ditlevsen si presenta come una condanna a cui “non si sfugge” perché “resta attaccata addosso come un odore”.

E’, di fatto, un’infanzia dolorosa, dalla quale osservare

“di nascosto gli adulti, la cui infanzia è seppellita in loro,

lacera e sforacchiata come un tappeto consunto e tarmato,

al quale nessuno pensa, e che non serve più.

A guardarli non si direbbe che ne abbiano avuta una”.

Non si sfugge dai fantasmi, quando si evocano

“Ci sono momenti della vita in cui si cresce e si invecchia in poco tempo. Accade nel dolore, certo, accade anche nello smarrimento, nel fatto che prima il mondo ha la terra e il cielo e poi il mondo ha l’inferno, la terra e il cielo”.

Così Margherita, protagonista e voce narrante del romanzo, riflette sulla storia che, nella finzione letteraria, ha iniziato a narrare, come un diario di eventi oramai lontani, ma che hanno segnato la sua esistenza, spingendola lontano dall’Italia, fino in Australia, nella consapevolezza, tuttavia, che “Non c’è più il tempo per ricominciare a vivere”.

Non potendo più “ricominciare a vivere”, Margherita viene sollecitata a scrivere  per raccontare quello che definisce un incantesimo che la tenne prigioniera spingendola a compiere azioni irreparabili, per riuscire a fuggire e conquistare (solo apparentemente, tuttavia) la libertà. Il diario di Margherita, come apprenderemo,  ha una finalità terapeutica (nella narrativa italiana, questa non è certamente una novità), ma il lettore non saprà mai se l’esito sarà positivo. Come non saprà (il lettore) cosa sia realmente accaduto nella casa di vetro, da cui era possibile vedere la cupola di San Pietro, che Margherita aveva definito una Camelot, luogo incantato, di leggende fiabesche, insomma, ma che ben presto si rivelerà un finis terrae, un hortus conclusus in cui niente è come appare.

Margherita viene accolta nella casa di vetro (una villa senza pareti di cemento, appunto, attribuita al  celebre architetto contemporaneo Rem Koolhaas) come istitutitrice di Lucrezia e Lavinia, due gemelle deliziose e talentuose, alle quali dovrà insegnare le lingue straniere e seguire nello studio del pianoforte e nello sport. Le due gemelle, però, riveleranno ben presto una forza soprannaturale, capace di determinare gli eventi e richiamare fantasmi inquietanti dai quali Margherita dovrà fuggire.

“Loro” si presenta come un romanzo gotico, nel solco della tradizione letteraria del genere, ma, come lo stesso autore ha avuto modo di affermare, è anche altro. Può infatti essere letto come un romanzo di fantasmi, come un romanzo sul bene e il male, sull’essere e apparire, su ciò che è reale e ciò che è immaginato. Insomma, “Loro” è un romanzo che sfugge ad ogni definizione,  che inquieta, ma nello stesso tempo rasserena, perché spinge il lettore a fare i conti con se stesso e la propria coscienza. Perché, come scrive Cotroneo:

“I fantasmi si evocano perché ci obbediscono, e non il contrario”.

Burattini senza fili, orfani del libero arbitrio

Immaginate che qualcuno vi offra un braccialetto super tecnologico, forse esteticamente non particolarmente avvincente, ma capace di interagire con la parte più profonda del vostro essere, suggerendovi di lasciare perdere durante  una discussione che sta alterando il vostro umore o segnalandovi il negozio da cui è possibile ricevere sulla porta di casa i vostri biscotti preferiti, in un formato extrafamiliare e scontatissimo. Aggiungete a ciò che questo braccialetto super tecnologico è in grado di indicare un piano alimentare e di fitness che vi permetta di tornare in forma, giovani (almeno nello spirito) e scattanti, pronto a segnalarvi eventuali eccessi che potrebbero compromettere il risultato raggiunto.

Aggiungete ancora che  l’uso di tale braccialetto super tecnologico vi consenta l’esonero dal ticket sanitario e l’accesso a negozi esclusivi da cui uscire senza passare dalla cassa: l’acquisto sarà registrato dal vostro monile avveniristico e prontamente addebitato sul vostro conto.

Probabilmente, qualcuno, forse tra i più pigri, dirà che non sarebbe male.

Altri, probabilmente più maliziosi, si chiederanno quali sarebbero le condizioni per avere accesso a così tanti privilegi.

Sono proprio questi ultimi a porre l’attenzione sul tema del romanzo di Rielli il quale, attraverso la confessione del protagonista, Marco De Sanctis, ci offre un’analisi spietata del tempo che stiamo vivendo prospettando una società futuribile, senza dubbio distopica, ma che (come è accaduto con altri romanzi distopici) rischia di diventare profetica. 

Marco De Sanctis scopre che  con la sua laurea in Filosofia difficilmente potrà entrare nel mondo del lavoro. Potrebbe tentare con l’insegnamento, ma le liste di attesa sono lunghe e potrebbero trascorrere dei decenni prima di potere conquistare una cattedra. Decide, pertanto, di sfruttare la propria cultura e l’abilità narrativa inventando un blog satirico che, in breve, ottiene un notevole successo. Uno spazio virtuale attraverso il quale denunciare il “male che le macchine, i computer, gli algoritmi stavano facendo all’umanità”.

In breve tempo, però, Marco De Sanctis entra a far parte proprio di quel mondo da cui si sentiva estraneo (si definiva addirittura un luddista!) e fonda una startup, la Before, un’azienda di Big Data, capace di prevedere il comportamento di milioni di consumatori, grazie alla quale si ritroverà ricchissimo, senza però arrendersi (anche se in alcuni momenti potrebbe sembrare il contrario) alla realtà digitale, a quel mondo virtuale che ci vorrebbe tutti burattini manovrabili, senza cultura, né senso critico, cieche e obbedienti pecorelle, pronte a seguire a capo chino il capo branco.

Perché è questo quello che si vede sulle piazze virtuali che tutti, oramai, frequentiamo, mettendo in mostra la nostra vita e pronunciando sermoni su argomenti di cui non sappiamo nulla. Perché  nella società del digitale non contano né conoscenze, né competenze. Un concetto che Rielli ha ben chiaro: 

“Come lo spieghi a un bambino che cresce e che vede che l’insulto è senza conseguenze, che il merito non conta un cazzo, tantomeno il lavoro, il farsi il culo, l’appassionarsi a un progetto, il sapere qualcosa. No, solo l’odio, la superficialità, nessun senso di giustizia”.

Chi scrive sa, per professione, che quanto  appena citato ha solide fondamenta:  purtroppo, la convinzione che l’impegno e  lo studio, rigoroso e approfondito, servano a ben poco, visto che tutto è disponibile (hic et nunc) su internet,  è sempre più radicata. E, ahinoi, non   solo  tra i giovani con scarsa voglia di impegnarsi!  Quei giovani educati, sul modello di molti adulti, a inseguire bisogni mimetici  che non potranno mai soddisfare. Quei giovani che, magari seguendo le indicazioni di un capo popolo, attribuiranno la responsabilità del fallimento alla vittima di turno da sacrificare sull’altare di un dio senza nome. Non è dunque  un caso che il protagonista faccia sua la lezione dell’antropologo René Girard le cui teorie ispirano il “Documento strategico Before” che chiude il romanzo.

Il tempo come solvente

A Julian Barnes è stato appena assegnato il Premio Letterario Internazionale Mondello 2023, per la sezione Autore Straniero. Un riconoscimento meritatissimo.

Tony Webster è un uomo mediocre, “medio” dice nel romanzo,   secondo la scelta linguistica, riteniamo,  della traduttrice. La sua vita si è svolta secondo un copione comune, senza particolari sconvolgimenti. Non possono essere ritenuti tali il divorzio, per volontà della moglie, invaghitasi di un altro uomo, o il suicidio di un caro amico. Giusto per indicare quelli che potrebbero essere gli eventi più significativi della sua vita   che Tony ricostruisce senza particolare passione, con lo sguardo distaccato di chi osserva gli avvenimenti senza passione, da spettatore.

Fin dall’inizio Tony Webster sembra volere mettere in guardia il  lettore, avvertendolo che  “quel che si finisce per ricordare non sempre corrisponde a ciò di cui siamo stati testimoni”. Riflessione profonda, quasi   filosofica, che molto dice sulla memoria che conserviamo degli eventi della nostra esistenza perché, come scrive quasi a conclusione del romanzo, “ricordo è ciò che pensavamo di aver dimenticato”, precisando che “dovrebbe apparirci ovvio come il tempo per noi non agisca affatto da fissativo, ma piuttosto da solvente”.

Julian Barnes, che con “Il senso di una fine” si è aggiudicato nel 2011, anno della pubblicazione, il premio Booker Prize, ricostruisce la trasformazione culturale e sociale inglese del primo Novecento  con un’abilità evocativa tale da condurci nei luoghi della storia, rendendoci quasi spettatori.

A scuola, “dove tutto ha avuto inizio”, giunge  Adrian, studente particolarmente intelligente e colto, che cerca di comprendere il senso profondo delle cose, la cui amicizia è molto ambita, ma con il quale Tony arriva ad una dolorosa (e vigliacca?) rottura a causa di una giovane donna, Veronica, fonte di gioie (a dire il vero poche) e  umiliazioni (tante).

Quando è ormai un tranquillo pensionato, Tony Webster riceve un’eredità insolita: poche migliaia di sterline e un misterioso diario che non riuscirà ad avere , ma che diventerà l’oggetto del desiderio, lo strumento che dovrebbe  svelare misteri di cui fino a quel momento aveva ignorato l’esistenza.

Per quale motivo Tony diventa il destinatario del diario di un giovane uomo morto suicida decenni prima? Quale ruolo Tony ha avuto in quel suicidio? Quale messaggio il diario contiene per lui?

Interrogativi, forse, destinati a rimanere senza risposta, ma (molto più probabilmente) dai quali potrebbe scaturire una storia inimmaginabile, di quelle che, spesso, ci riserva la vita.