Per natura noi esseri umani – donne e uomini che vivono nello spazio e nel tempo – siamo animali sociali. Come già aveva affermato Aristotele nel IV secolo a.C., costruiamo la nostra personalità, il nostro essere, nella relazione con i nostri simili, nel confronto con gli altri; col vivere a contatto con il mondo naturale, nella sua totalità e complessità. La nostra felicità – non l’appagamento becero che nasce dall’affermazione sterile di un sé capriccioso e volubile – scaturisce dalla pienezza della vita che è possibile quando ci incontriamo e ci riconosciamo, vicendevolmente pur nelle differenze, nella condivisione di obiettivi comuni da realizzare insieme. È, infatti, la relazione con gli altri che rende attiva la mente e l’inconscio; perché nel rapporto con gli altri scaturiscono pensieri ed emozioni, quanto, cioè, ci distingue dagli altri viventi.
Il “malessere del mondo moderno” – analizzato scientificamente da Paolo Inghilleri – sarebbe, dunque, figlio dell’isolamento cui conduce la contemporaneità, fatta di relazioni virtuali che spesso, sempre più spesso e per un numero sempre più ampio di individui soprattutto giovani, hanno sostituito le relazioni sociali. Vero è che per molti i rapporti virtuali sono espressione di socialità, ma si tratta di un errore che può avere conseguenze negative ed essere causa di un disagio psichico che si manifesta con ansia e depressione, ma può condurre anche a malesseri più profondi. È certo, infatti, che la socialità non può essere limitata a relazioni a distanza, virtuali, mediate dalla tecnologia, che riducono la società a “somma di monadi narcisiste” (per usare l’espressione di Vittorio Gallese che Inghilleri cita nel proprio saggio, pag. 47).
Quella umana, tuttavia, è una macchina perfetta, capace di auto guarirsi, almeno dal disagio psicologico lieve: dopo avere analizzato le cause del malessere che caratterizza il nostro tempo e i fattori che ci proteggono, Inghilleri individua i “meccanismi psicologici che abbiamo già a disposizione” e che funzionano nella misura in cui acquisiamo la consapevolezza che dal nostro agire dipende la nostra salute fisica e mentale.
Terramarina è la meta, come l’Itaca di Ulisse del mito antico, a cui ogni uomo tende. E, come per il mito antico, bisogna augurarsi che la strada (come ha scritto il poeta, greco anche lui, Kavafis) sia lunga, perché bisogna arrivarci carichi di vita e di esperienze (proprio come Ulisse), “ricco dei tesori accumulati per la strada”.
Terramarinaè il secondo romanzo di quella che diventerà la trilogia della “cricca della Tabbacchera”, donna d’acciaio, bella e forte, determinata e caparbia, coraggiosa e indipendente. Sindaca Scassacoglioni (secondo l’epiteto che uomini dei palazzi che contano, dove il malaffare è di casa, le hanno cucito addosso e che lei indossa con orgogliosa consapevolezza) che vuole fare la rivoluzione , “cambiare il mondo a colpi di poesia”, con l’Amurusanza (che è anche il titolo del primo romanzo) termine che racchiude la parola amore, ma che va oltre ed a cui aggiunge una dimensione che è fatta di accoglienza, solidarietà, apertura:
Parole di fuoco, buttate giù per raccontare quella che si presenta come una fiaba di Natale, con una neonata (chiamata Luce, “bambina di luce giunta in quella casa a dissolvere il lutto e a portare la gioia”), partorita per strada sotto la neve, da una madre disperata per la quale non sembra esserci nemmeno una stalla con la mangiatoia.
“a far capire che porto siamo, signori miei,
porto che si fa madre,
che accoglie e non rigetta,
che apre e non si chiude,
che abbraccia e sfama a dispetto dei canazzi
che ringhiano di chiusure e di cesure e di leggi a sfratto,
intanto che la vita se la gioca
con la morte – e perde – in mezzo a un mare assassino”.
Nel costruire il suo racconto fiabesco, però, Tea Ranno non ignora la realtà del suo tempo (che è anche il nostra) e non distoglie lo sguardo da quel mare dove navi di disperati, fuggiti dalla violenza, dalla guerra, dalla fame, aspettano di scendere e toccare una terra che è sempre stata luogo di accoglienza, di popoli diversi, di genti venute per conquistare, ma anche per lasciarsi conquistare.
Simbolo di questa terra diventa la casa di Agata la Tabbacchera che agli amici aveva detto e ridetto “Sula lassatimi!”. Perché in quella notte di Natale lei aveva bisogno di solitudine, per fare quattro conti con se stessa. Il caso deciderà diversamente e la sua casa, buia e triste, nella cui solitudine avrebbe voluto annegare, si trasformerà in porto d’accoglienza, illuminata come un faro nella notte, sfavillante di Amurusanza.
Originaria di Melilli, a cui è legata indissolubilmente, nonostante da un quarto di secolo viva a Roma, Tea Ranno è oggi forse una delle voci più autorevoli della Sicilia. Una Sicilia che si fa mito, con le bellezze e le brutture che ne hanno deturpato il paesaggio e l’anima, col suo essere “luce e lutto” (come diceva Bufalino), che Tea Ranno riesce a mettere sulla pagina, con profondità e sentimento, con una scrittura che si fa poesia nella quale si è riservata un cantuccio, lei la “signora con il taccuino” che da Roma torna nella terra dei padri, alla ricerca delle radici, per ascoltare storie, anche di uomini e fatti lontani, ma che nelle sue pagine diventano emblema dell’ esistere al di là dello spazio e del tempo.
L’autore, appena venticinquenne, fa il suo ingresso nel mondo letterario con un romanzo che, come nelle favole della tradizione, ha come protagonisti gli animali, con i vizi, le virtù, i sentimenti degli uomini. Disperati e speranzosi; appassionati e crudeli; devastati dalla vita, ma capaci di guardare oltre e reinventarsi; sognatori e realisti proprio come gli uomini. I personaggi di questa storia sono faine, cani, maiali, tassi, ricci, volpi che allegoricamente ci rappresentano e ci dicono cosa siamo e cosa possiamo essere.
L’io narrante e protagonista è una faina, Archy: il padre è stato assassinato da un umano che lo ha sorpreso a rubare, lasciando la moglie e i figli nella disperazione di un inverno che rende difficile, se non impossibile, cacciare. Il bisogno lascia poco spazio all’amore materno e agli affetti familiari, consumati dalla necessità di sfamare la nidiata, trascurando, chi particolarmente debole, sembra avere poche possibilità di sopravvivenza.
Così, quando, Archy, cadendo da un albero nel tentativo di portare a casa delle uova di uccello, rimarrà zoppo, sarà ceduto dalla mamma alla vecchia volpe usuraio. Ha inizio per Archy la sua nuova vita, il primo di tanti cambiamenti che caratterizzeranno la sua esistenza:
“La vecchia volpe decise di insegnarmi tutto quello che sapeva”.
In poco tempo, nonostante i maltrattamenti, Archy diventa l’apprendista della volpe che, intuendo di essere oramai alla fine della propria vita, desidera un erede a cui lasciare i beni accumulati in anni di usura violenta. In particolare, però, la volpe insegna ad Archy a scrivere, a leggere ed interpretare un libro, il Libro, una bibbia rubata negli anni della giovinezza.
Alla lettura della bibbia la volpe ha dedicato parte della propria vita, convincendosi di essere “un figlio di Dio” e decidendo di raccontare la propria esperienza, una vita di rapina e violenza con cui fare i conti, prima di superare la soglia dell’esistenza per andare verso un oltre di cui non si ha consapevolezza.
Il romanzo, così, supera i confini della favola, per diventare un libro sulla scrittura, su questa capacità, tutta umana, che ci rende “figli di Dio”, regalandoci l’eternità, come dice Archy:
“mi fece riflettere sul potere della scrittura, quanto fosse immune al tempo”.
Per cui, oramai, vecchio, stanco e solo, disperatamente solo, Archy decide “che l’unico compromesso prima di sparire era raccontarmi”, fino a scoprire il potere taumaturgico della scrittura:
“Più scrivo, più l’ossessione della morte si fa leggera.
La sconfiggo ad ogni pagina, specchiandomi nel colore, nelle linee che traccio.
Dio porterà la mia anima chissà dove, disperderà il mio corpo nella terra,
ma i miei pensieri rimarranno qui, senza età, salvi dai giorni e dalle notti”.
Affiderà il suo racconto autobiografico, insieme con la bibbia avuta in dono dalla volpe, al suo ultimo amico, Klaus, come un tesoro prezioso, da tenere sempre con sé:
“Ti diranno tante verità, ti faranno male,
ma non potranno mai ingannarti su quello che sei,
su quello che siamo”.
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Quando l’infanzia non aveva voce
Narratrice e poetessa, Tove Ditlevsen è la scrittrice danese nota soprattutto per il suo impegno contro i soprusi e le violenze nei confronti dei bambini, oltre che per l’attenzione nei confronti della condizione femminile che in Infanzia assume i colori della confessione.
Primo volume della “Trilogia di Copenaghen” considerata l’evento letterario dell’anno, la trilogia è stata salutata come un capolavoro che si unisce al coro di voci femminili che, da diversi Paesi, hanno raccontato e denunciato la loro condizione.
Tove vive la propria Infanzia in un piccolo bilocale di Vesterbro, quartiere operaio di Copenaghen, tra mille problemi causati, in particolare, dalle difficoltà economiche che la famiglia deve affrontare: il padre è spesso senza lavoro a causa della propria militanza comunista. È lui che spinge Tove alla lettura, ma, quando la bambina gli confesserà il sogno di diventare poetessa, le dice, senza mezzi termini, che non è un lavoro da donne. Nonostante ciò, Tove continuerà a scrivere segretamente poesie su un quadernetto che nasconderà gelosamente per non essere derisa.
La sua formazione è affidata alla madre, rancorosa e distratta, incapace di accoglierla e comprenderla causa di una profonda sofferenza che la accompagnerà sempre:
Il mio rapporto con lei è stretto, doloroso, traballante,
e se voglio un segno d’affetto devo cercarlo io.
Qualunque cosa io faccia, la faccio per compiacere lei,
per farla sorridere, acquietare la sua rabbia.
A ciò bisogna aggiungere la difficoltà di comprendere il mondo degli adulti dai quali giungono mezze frasi e rivelazioni che Tove non riesce a decodificare: due mondi, quello di adulti e bambini nella prima metà del Novecento, che non riescono a incontrarsi, a causa di segreti che la bambina non comprende. Ci penserà la sua amica Ruth, bambina senza regole e spregiudicata, alla quale si accosta per il suo bisogno di essere accolta e considerata, a svelarle il mondo degli adulti. Tove, però, avverte una profonda distanza da Ruth, scavata ulteriormente dal tentativo di agire in maniera spregiudicata e libera come l’amica, ma condannandosi al fallimento per la paura e l’insicurezza che le sono compagne.
Con linguaggio semplice ed immediato, Tove Ditlevsen ci guida nel proprio mondo, dove:
“L’infanzia è lunga e stretta come una bara, e non si può uscirne da soli”.
L’infanzia di Tove Ditlevsen si presenta come una condanna a cui “non si sfugge” perché “resta attaccata addosso come un odore”.
E’, di fatto, un’infanzia dolorosa, dalla quale osservare
“di nascosto gli adulti, la cui infanzia è seppellita in loro,
lacera e sforacchiata come un tappeto consunto e tarmato,
al quale nessuno pensa, e che non serve più.
A guardarli non si direbbe che ne abbiano avuta una”.
Ripropongo la mia lettura di “Due vite” a cui è stato appena assegnato il “Premio Strega”.
Inizia come una fiaba, prosegue come un racconto in cui biografia e autobiografia si intrecciano tessendo la narrazione di un’amicizia a tratti difficile, ma mai venuta meno. Anche quando la vita, per un periodo ha separato, anche quando la morte sembra avere tolto ogni possibilità di incontro. Perché nell’assenza il dialogo con l’amico, quello vero con cui si sono stati condivisi i giorni della spensieratezza o del dolore, non viene interrotto, nemmeno nella distanza.
Due vite di Emanuele Trevi è tutto questo e, certamente, tanto altro che il lettore avrà modo di scoprire attraverso la ricostruzione dell’esperienza umana e culturale di Rocco Carbone e Pia Pera, certamente autori di “nicchia”, ma il cui contributo nella storia della letteratura italiana non può certamente essere trascurato.
Dalle pagine di Trevi emergono due ritratti complementari di Carbone e Pera.
L’uno (per dare valore alla vecchia locuzione latina, secondo cui nomen omen) spigoloso e duro, tormentato da una profonda infelicità, provato da un male di vivere senza nome che ne ha condizionato la vita fino alla morte prematura..
L’altra una signorina per bene, ma tenace e determinata, profonda conoscitrice della letteratura slava, abile traduttrice, capace di rinunciare alla carriera per ritirarsi in un podere di famiglia e dare vita ad un giardino, figlio di un sogno inseguito anche negli anni della terribile malattia che l’ha portata via prematuramente, ma che lei ha affrontato con dignità encomiabile.
Così Trevi: “Quando per lei è arrivato il momento, ha rivelato enormi riserve di saggezza e forza d’animo, combattendo bene la sua battaglia […] Era semmai una persona intensa, dotata di un’anima prensile e sensibile, incline all’illusione, facile a risentirsi”.
Due persone complesse Carbone e Pera con i quali l’autore ha condiviso sia momenti spensierati che scelte difficili. Non è dunque peregrina l’idea che Trevi (certamente inconsciamente) narrando di Carbone e Pera abbia voluto raccontare di sé, dell’amore amicale nei confronti di due compagni di strada che la morte ha allontanato, lasciando dei sospesi che, in particolare per quanto riguarda il rapporto con Rocco Carbone, avrebbero potuto essere causa di rimorsi.
Fu Cesare Garboli nel suo saggio su Antonio Delfini ad affermare che “in ogni amicizia c’è un rimorso”, come ricorda Emanuele Trevi che confessa così il sentimento nei confronti di Carbone da cui per un lungo periodo si era allontanato con una determinazione che influenzò i rapporti successivi. Sebbene i motivi che avevano portato alla separazione sembrassero superati.
Dunque, Due vite può essere letto come un omaggio alla memoria di due amici, ma anche alla propria vita, nella consapevolezza che ciò che è stato deve essere rielaborato per proseguire nella navigazione, per tutto il tempo che ci sarà concesso.
Voglio concludere queste riflessioni con quanto scrive Trevi, poche frasi, che rivelano il senso di tutto il libro:
Nell’ultimo anno, segnato dalla ben nota pandemia, ci si è chiesti se, quando tutto sarà finito, ci ritroveremo migliori di quelli che eravamo prima del gennaio 2020, allorché anche in Italia si prendeva atto che quella provocata dal Covid 19 non sarebbe stata una semplice influenza e che il contagio non interessava solamente la Cina. Le risposte più ottimistiche hanno lasciato intravedere la possibilità di un mondo migliore, fondato sul rispetto nei confronti dell’ambiente che ci ospita e dei nostri simili. Molto presto, però, abbiamo dovuto osservare che, ancora una volta, la speranza di diventare migliori non è facilmente realizzabile. Essa appare, piuttosto, come un’utopia. Dunque, per definizione, è irrealizzabile. Non si tratta, siatene sicuri, di una lettura disfattista e pessimista, quanto, piuttosto, della facile considerazione di chi osserva dalle cronache quanto sta accadendo nel mondo, anche in questo preciso momento; di chi si sofferma a osservare l’animo umano, a scavare a fondo per comprendere le ragioni di fatti, anche lontani tra loro, ma tutti con un’unica ragione comune: il male che gli uomini portano con sé e che lasciano dilagare.
È quanto fa Loredana Lipperini (narratrice che si muove tra gotico e fiction, tra magia e profezia) che ci conduce in un paese immaginario delle Marche, Vallescura, che potrebbe avere, in potenza, gli elementi per assurgere a locus amenus, se non fosse abitato da donne (gli uomini nel romanzo sono poco significativi, figure marginali e irrilevanti) che portano dentro di sé il male, da cui, poi, far scaturire la peste, capace di sterminare tutti gli abitanti del paese.
La narrazione, che procede per livelli temporali diversi, ruota intorno ad alcune figure femminili di cui, certamente, quella più inquietante è Saretta, donna disperatamente incompiuta, vittima di se stessa, bulimica fin dalla fanciullezza, incapace di controllare il rapporto con il cibo che l’ha resa brutta e sgraziata, ma che –probabilmente per compensare – si è ricavata (apprendiamo anche con la violenza, non solo psicologica) il ruolo di despota di un’intera comunità, pronta a eseguire i suoi ordini, anche quando lasciati passare come semplici considerazioni:
“Tutti vanno da Saretta quando c’è un problema,
tutte, soprattutto, fra donne si trova la soluzione più in fretta,
gli uomini sono lenti a capire, si fissano su particolari
di nessuna importanza”.
Lei, dunque, non è sola nel suo ruolo di custode, ha saputo conquistare la complicità di altre donne, esecutrici passive della sua volontà: “Ma questa sera Saretta, Annalisa, Maddalena e Fiorella sono di guardia. Il paese appartiene a loro: sanno, controllano, decidono, dispensano consigli sedute sulle sedie di paglia o di tela dipinta a bolli rossi e arancioni”.
Quella di cui si parla nel passo citato non è una sera come tutte le altre (una tranquilla sera d’estate che le donne del sud della mia infanzia trascorrevano sedute sull’uscio per sfuggire al caldo con qualche chiacchiera): sanno, infatti, che “una catastrofe sta arrivando, e che li scaccerà”. Lo sa soprattutto lei, Saretta, che ha da tempo individuato il nemico da eliminare per salvare il paese dalla fine imminente: si tratta di Maria, un’altra donna. La donna venuta da fuori, indesiderata e guardata con sospetto fin dal primo giorno, isolata per volontà di Saretta in attesa che venga allontanata (anche con la violenza, se è il caso) perché considerata pericolosa per il bene dell’intera comunità:
“Noi siamo uniti, pensava Saretta con ferocia, e lo siamo
perché nessuno viene a mettere in discussione il nostro mondo.
Ma perché questo mondo continui dobbiamo contarci,
dobbiamo essere solo noi”.
Poi c’è Chiara, un’altra straniera, ma conosciuta e tollerata perché è la nuora di un’anziana del paese, che non si è lasciata assorbire dal cerchiomagico: “Chiara è un’anima buona, oltre che una sognatrice. Scrive, beve tè bianco, va alle mostre, nutre i gatti e legge molto”. Ha raggiunto Vallescura per aiutare la suocera Aurelia (la ritiene tale benché da anni abbia divorziato dal marito) che ha avvertito in pericolo grazie a un sogno, nel quale era chiamata a seppellire i morti di peste. Chiara vorrebbe portare via Aurelia, prima che il male si diffonda, ma la ferma la consapevolezza che “si può sconfiggere solo quando si è insieme. La natura è più forte degli uomini. Gli uomini possono sperare di batterla, momentaneamente, solo unendosi”.
Infine, c’è una giovane donna, poco più che fanciulla, che ha sfidato pubblicamente Saretta di cui adesso rischia la vendetta. Sarà accolta da Aurelia e Chiara. A Carmen, questo possiamo dirlo senza rivelare nulla, avrà il compito di trasmettere la memoria della peste e la consapevolezza che il male è sempre in agguato, soprattutto nei momenti di debolezza, quando si è più vulnerabili. Un compito quasi titanico nella consapevolezza che gli uomini non cambiano, sono sempre gli stessi, anche di fronte alla peste. Oggi, come nel Medio Evo o nel Seicento, durante le due pestilenze raccontate dalla storia e dalla letteratura.
Lo sguardo di Loredana Lipperini, infatti, si volge lontano nel tempo, per costruire un racconto che si legge d’un fiato (direi quasi che “si fa leggere”) coinvolge il lettore, lo costringe a guardare dentro il proprio animo e intorno a sé con sguardo acuto e mente libera dai pregiudizi.
Si chiama empatia la capacità di sentire le emozioni degli altri, come se fossero proprie; la capacità di vedere nell’altro se stessi, superando i limiti del narcisismo infantile e dell’individualismo egoista che ci allontana dai nostri simili. Donne e uomini empatici possono essere una minaccia per chi governa attento a conservare il potere con strumenti camuffati dai colori della democrazia, ma di fatto dispotici e illiberali.
È quanto accade nel paese di DF dove ai cittadini, appena nati, viene inoculato un vaccino che cancella la capacità di provare emozioni e sentimenti, sia positivi che negativi. Donne e uomini sono così condannati a diventare adulti incapaci di provare sentimenti, affetti, ambizioni professionali; senza mai conoscere la bellezza dell’arte, nelle sue molteplici espressioni, dalla pittura alla letteratura alla musica. Donne e uomini nel paese di DF sono automi incapaci di provare desiderio e volontà; sono monadi che vivono immersi in un mondo grigio, colore declinato nelle diverse sfumature, costruito per soddisfare tutti i bisogni individuati attraverso algoritmi pensati per tutti gli aspetti dell’esistenza: dalla famiglia (matrimoni di durata quinquennale con partner imposti allo scopo di procreare altri automi sottratti alla nascita) al lavoro (assegnato sulla base di capacità manifestati fin dall’infanzia), allo sport (tristemente vissuto in palestre casalinghe organizzate dal potere).
“… La cucina dei classe cinque aveva i comuni elettrodomestici, frigorifero, forno, piano cottura cappa e anche un forno a microonde e una piastra per panini, tutti in formica grigia quattrocentoventidue tranne i profili che erano neri settecentoventisette, una stanza per l’esercizio fisico con una cyclette e un tapis roulant e attrezzi e pesi verdi trecentosedici, la stanza per l’esercizio fisico era considerata una priorità dal governo di DF, l’esercizio fisico era fondamentale per garantire una perfetta rotondità affettiva che non cedesse alle sbavature di emozioni viatico di pazzia”.
È questo il mondo immaginato da Giulio Cavalli nel suo ultimo romanzo (meritatamente segnalato per concorrere al Premio Strega, ma, purtroppo, escluso dalla dozzina dei finalisti) che si legge d’un fiato, grazie anche ad una scrittura scorrevolissima, fondata su una sintassi che, spesso libera dalla punteggiatura, ci porta ad immergerci nella vita dei personaggi e a sentirne (empaticamente) il dolore e la delusione, la sofferenza e la scoperta, fino a svelarsi come metafora minacciosa del rapporto che lega governanti e governati, capaci di consegnare la loro libertà, volontariamente, per pigrizia o per vigliaccheria, al potere.
Un mondo indubbiamente distopico la cui costruzione richiama a “Fahrenheit 451” di Bradbury e “1984” di Orwell, ma che ci spinge a guardarci intorno, a riconsiderare il mondo in cui viviamo per non finire, al pari dei cittadini di DF, col consegnare la nostra libertà in nome di una sicurezza che, di fatto, si chiamerebbe schiavitù.
La vicenda ha inizio su un aereo dove in bussines class incontriamo Jim e Tessa, di ritorno da un viaggio a Parigi, il primo dopo la pandemia Sono attesi a New York a casa di due amici per celebrare il rito collettivo, tutto americano, del Super Bowl dell’anno 2022.
Da poche settimane nelle librerie italiane (particolarmente atteso grazie anche alle strategiche interviste all’autore oramai ottantaquattenne e alle esaltanti recensioni pubblicate negli Stati Uniti e accompagnate dalla convinta dichiarazione da parte dell’editore, certamente finalizzata a dare conferma delle abilità profetiche di Delillo, che il libro è nato prima della pandemia) il racconto lungo, perché di questo di fatto si tratta, presenta forse qualche debolezza. I riferimenti alla pandemia sono evidenti, nonostante le dichiarazioni dell’editore, ed è probabile che la scrittura ne sia stata ispirata e condizionata, come dimostrerebbero i riferimenti ad eventi oramai più che noti.
“Il silenzio”, comunque, ci spinge a riflettere (così come sta facendo il Covid-19) sul nostro stare al mondo e sulle conseguenze che la tecnologia ha sulle nostre vite e sul futuro del mondo stesso a cui ci conduce la lapidaria conclusione del racconto.
Mentre Kim e Tessa sono in volo, nella casa di Diane e Marx a Manhattan tutto è pronto e si osserva già lo schermo su cui comincerà l’attesissimo evento. Assieme agli anziani coniugi, troviamo un’ex studente di Diane, Martin, un giovane fisico dal temperamento a tratti inquietante. Sta studiando un manoscritto di Einstein di cui cita la celeberrima affermazione che Don Delillo utilizza nell’esergo: “Non so con quali armi si combatterà la Terza guerra mondiale, ma la Quarta guerra mondiale si combatterà con pietre e bastoni”. Possiamo individuare dunque nel personaggio di Martin, pur anagraficamente lontano dall’autore, l’alter ego di Delillo il quale dichiara di non possedere uno smartphone e di continuare a utilizzare la sua vecchia macchina da scrivere.
Improvvisamente, nell’appartamento di Manhattan cala il silenzio: un silenzio assordante ed inquieto, provocato da un blackout che pone fine ad ogni possibilità di comunicare e che causa un atterraggio di emergenza dell’aereo su cui viaggiavano Jim e Tessa che prima ritroviamo in fila al pronto soccorso, dove l’uomo dovrà farsi medicare una ferita riportata sbattendo sul finestrino, e subito dopo (non prima, però, di una scena di sesso, quanto mai improbabile, nel bagno dell’ospedale) a casa di Diane e Marx .
Vediamo quindi i personaggi interrogarsi sulle ragioni di un evento che “ha messo fuori uso la nostra tecnologia” senza la quale è impossibile comprendere cosa stia accadendo fuori dalle mura di casa. Non rimane che tentare di formulare qualche ipotesi attribuendo l’origine dell’evento (come per la pandemia) ai cinesi o all’incapacità del governo. Per la serie, come diceva un mio vecchio professore, “Piove, governo ladro!”.
“Potrebbe essere il governo degli algoritmi.
I cinesi lo guardano, il Super Bowl.
Loro giocano a football americano.
I Beijing Barbarians. Tutte cose verissime.
E quelli che ci rimettono alla fine siamo noi.
Hanno innescato un’apocalisse selettiva della rete.
La partita: loro adesso la stanno guardando e noi no”.
Si potrebbe dire che nel racconto prevale la struttura dialogica (mimetica come direbbe un critico letterario) su quella meramente narrativa, ma non lo diciamo. Anche perché quelli che abbiamo letto (e che leggerete) sono monologhi, soliloqui, a tratti privi di senso e inquietanti.
Ciò che più inquieta, però, è che questa difficoltà nella comunicazione non è solo la conseguenza del blackout. L’esordio del racconto, quando abbiamo incontrato Jim e Tessa, ruota sul dialogo tra i due che, seppure a tratti sembrano comunicare, abbiamo percepito ciascuno chiuso nel proprio mondo.
Immaginate che qualcuno vi offra un braccialetto super tecnologico, forse esteticamente non particolarmente avvincente, ma capace di interagire con la parte più profonda del vostro essere, suggerendovi di lasciare perdere durante una discussione che sta alterando il vostro umore o segnalandovi il negozio da cui è possibile ricevere sulla porta di casa i vostri biscotti preferiti, in un formato extrafamiliare e scontatissimo. Aggiungete a ciò che questo braccialetto super tecnologico è in grado di indicare un piano alimentare e di fitness che vi permetta di tornare in forma, giovani (almeno nello spirito) e scattanti, pronto a segnalarvi eventuali eccessi che potrebbero compromettere il risultato raggiunto.
Aggiungete ancora che l’uso di tale braccialetto super tecnologico vi consenta l’esonero dal ticket sanitario e l’accesso a negozi esclusivi da cui uscire senza passare dalla cassa: l’acquisto sarà registrato dal vostro monile avveniristico e prontamente addebitato sul vostro conto.
Probabilmente, qualcuno, forse tra i più pigri, dirà che non sarebbe male.
Altri, probabilmente più maliziosi, si chiederanno quali sarebbero le condizioni per avere accesso a così tanti privilegi.
Sono proprio questi ultimi a porre l’attenzione sul tema del romanzo di Rielli il quale, attraverso la confessione del protagonista, Marco De Sanctis, ci offre un’analisi spietata del tempo che stiamo vivendo prospettando una società futuribile, senza dubbio distopica, ma che (come è accaduto con altri romanzi distopici) rischia di diventare profetica.
Marco De Sanctis scopre che con la sua laurea in Filosofia difficilmente potrà entrare nel mondo del lavoro. Potrebbe tentare con l’insegnamento, ma le liste di attesa sono lunghe e potrebbero trascorrere dei decenni prima di potere conquistare una cattedra. Decide, pertanto, di sfruttare la propria cultura e l’abilità narrativa inventando un blog satirico che, in breve, ottiene un notevole successo. Uno spazio virtuale attraverso il quale denunciare il “male che le macchine, i computer, gli algoritmi stavano facendo all’umanità”.
In breve tempo, però, Marco De Sanctis entra a far parte proprio di quel mondo da cui si sentiva estraneo (si definiva addirittura un luddista!) e fonda una startup, la Before, un’azienda di Big Data, capace di prevedere il comportamento di milioni di consumatori, grazie alla quale si ritroverà ricchissimo, senza però arrendersi (anche se in alcuni momenti potrebbe sembrare il contrario) alla realtà digitale, a quel mondo virtuale che ci vorrebbe tutti burattini manovrabili, senza cultura, né senso critico, cieche e obbedienti pecorelle, pronte a seguire a capo chino il capo branco.
Perché è questo quello che si vede sulle piazze virtuali che tutti, oramai, frequentiamo, mettendo in mostra la nostra vita e pronunciando sermoni su argomenti di cui non sappiamo nulla. Perché nella società del digitale non contano né conoscenze, né competenze. Un concetto che Rielli ha ben chiaro:
“Come lo spieghi a un bambino che cresce e che vede che l’insulto è senza conseguenze, che il merito non conta un cazzo, tantomeno il lavoro, il farsi il culo, l’appassionarsi a un progetto, il sapere qualcosa. No, solo l’odio, la superficialità, nessun senso di giustizia”.
Chi scrive sa, per professione, che quanto appena citato ha solide fondamenta: purtroppo, la convinzione che l’impegno e lo studio, rigoroso e approfondito, servano a ben poco, visto che tutto è disponibile (hic et nunc) su internet, è sempre più radicata. E, ahinoi, non solo tra i giovani con scarsa voglia di impegnarsi! Quei giovani educati, sul modello di molti adulti, a inseguire bisogni mimetici che non potranno mai soddisfare. Quei giovani che, magari seguendo le indicazioni di un capo popolo, attribuiranno la responsabilità del fallimento alla vittima di turno da sacrificare sull’altare di un dio senza nome. Non è dunque un caso che il protagonista faccia sua la lezione dell’antropologo René Girard le cui teorie ispirano il “Documento strategico Before” che chiude il romanzo.
Crosby è l’insignificante cittadina del Maine, Stato sull’Oceano Atlantico, che grazie alla narrazione di Elizabeth Strout (premio Pulitzer nel 2009 ) diviene caleidoscopio di un’umanità provata dalla quotidianità, a tratti drammatica, del vivere.
Al centro c’è Olive Kitteridge che nonostante la sua presenza sia talora limitata ad un’ immagine evocata dalla memoria di qualche personaggio, può essere considerata la protagonista di quello che, pur presentandosi come una raccolta di racconti, è di fatto un romanzo corale, con numerosi protagonisti. Tra tutti emerge dando unitarietà alla narrazione Olive Kitteridge, donna apparentemente impossibile, nervosa e scostante, insegnante di matematica temuta dagli alunni i quali, anche quando la incontreranno (o semplicemente la ricorderanno) da adulti avranno ben presente la paura che incuteva tra i giovani studenti della settima classe (più o meno la seconda media italiana).
Olive Kitteridge è inizialmente la moglie vista attraverso lo sguardo del marito, Henri, affettuoso e gentile, amato da tutti, aggredito verbalmente dalla propria compagna che riversa su di lui tensioni, frustrazioni e nervosismi dopo una giornata di lavoro. È la madre energica, apparentemente poco amorevole (già anziana racconterà che era solita picchiare il figlio), la suocera incattivita dall’arroganza della nuora alla quale, il giorno delle nozze, (dopo avere macchiato con un pennarello un maglione) porta via un reggiseno ed una scarpa che poi abbandonerà nel contenitore della spazzatura di un bar.
Tuttavia, chi seguendo il mio consiglio procederà nella lettura scoprirà anche tanti aspetti di Olive, una molteplicità di sfumature e sentimenti che la rendono realisticamente donna, con le sue contraddizioni e paure, capace di amare e di odiare, pronta a sottrarsi, ma anche ad offrirsi con generosità. Provata dalla vita, delusa negli affetti, riconoscente nei confronti dell’amore incondizionato del marito Henri, Olive Kitteridge a settantacinque anni scoprirà “che l’amore non va respinto con noncuranza, come un pasticcino posato assieme ad altri su un piatto passato in giro per l’ennesima volta. No, se l’amore era disponibile, lo si sceglieva, o non lo si sceglieva”.
Ed è così che Olive Kitteridge si erge a maestra di vita, ricordando a sé stessa, ma anche a al singolo lettore
“quello che tutti dovrebbero sapere:
che sprechiamo inconsciamente un giorno dopo l’altro”.