Imparare a perdonare e perdonarsi

“Benedette figliole. Benedette fanciulle con le lenti da vicino e le vene varicose, possibile che non capiate? Le orfane bianche siete voi. Voi siete davvero orfane bianche” (pag.225)

Natàlia, Lucia e Germana sono tre donne non più giovani che fin dalla prima infanzia sono state private delle cure materne. Le rispettive madri, infatti, per motivi affini (il disagio psicologico, in qualche caso emerso dopo il parto, che  le ha rese figlie delle loro figlie) hanno delegato ad altri, mariti, sorelle, parenti, l’accudimento delle tre bambine, rendendosi protagoniste di atti di rifiuto, talvolta reiterati, che –  come scopriremo nel corso della lettura – avrebbero potuto avere conseguenze gravissime. Al dramma dell’abbandono  si sono aggiunti dolori e perdite personali, sconfitte e delusioni eppure  Natàlia, Lucia e Germana, non più giovani ma nonancora anziane, non hanno rinunciato al sogno di avere del tempo per sé,  da vivere lontano, pur per brevi periodi, dalle rispettive madri di cui sono costrette ad occuparsi. Si tratta, com’è facilmente immaginabile, di relazioni tossiche, condizionate dal disamore accumulato nel corso degli anni, difficili da gestire e, apparentemente senza soluzione.

Fino a quando Lucia non propone alle due amiche, ritrovate dopo anni, di vivere tutte insieme, con le rispettive madri, nella sua grande casa e condividere le responsabilità dell’accudimento:

“Un incastro perfetto, considerato tutto.

Una società.

Un sodalizio.

Di più: un gioco” (pag. 29)

Le sei donne (le tre figlie di mezza età e le madri anziane) iniziano la loro convivenza che seguiremo attraverso la narrazione per quaranta giorni: da un mercoledì (18 febbraio, le ceneri) a una domenica (5 aprile, Pasqua di resurrezione). La narrazione, pardon la rappresentazione  di un lungo percorso quaresimale sarà seguita dallo sguardo attento e scrutatore di uno spettatore esterno: perché l’autrice, utilizzando in maniera sapiente e originale la scrittura, mette in scena personaggi, situazioni, sentimenti quasi fosse un dramma teatrale dove il comico e il tragico convivono, come sempre accade nell’esistenza quotidiana, per raccontare vite spezzate che imparano a ricomporsi, rapporti conclusi che possono ricominciare, affetti negati che si scoprono. Succede anche nella vita. Perché questo è la letteratura: la vita che diventa parola e che, attraverso la parola, si sublima.

Perché accada, però, è necessario scoprire verità e errori e comprendere come porvi rimedio. È necessario imparare ad accogliere e ad incontrare. È necessario sapere perdonare e perdonarsi, come per le nostre donne.

“Il perdono è nell’incontro.

L’uno fa un passo: chiede perdono. L’altro fa un passo: dà il perdono. Un dono più grande.

Il perdono è nell’incontro – nel passo in avanti, e non solo nel gettarsi in ginocchio. Ma anche chi perdona fa un passo verso l’altro, e si getta in ginocchio. Chi chiede perdono e chi dà il perdono sono sullo stesso piano, possono allungare una mano e si toccheranno. Usano i medesimi gesti. Conoscono gli stessi nomi. Essi chiamano male il male, e bene il bene. E tutto questo, coscienza”. (pag.309)

Storia di una combattente

Marta si stava preparando alla maturità (il momento più intenso per la vita di un giovane,  momento di scelte determinanti per il futuro, di speranze e sogni)  quando improvvisamente si risveglia in un letto della terapia intensiva e prende atto del cambiamento che subirà la sua vita. Fermata da una malattia terribile alla quale non si arrenderà, troverà la determinazione e il coraggio di prendere in mano la propria vita e di ricostruirla, anche quando la lotta si fa impari.

“Ricordo la luna” è la storia di questa lotta. È la storia del coraggio di una ragazza e del difficile cammino nel suo farsi donna. È la storia di donne forti (mamma Anna, zia Franca…) che si sostengono per proseguire, senza mai arrendersi. È la storia di legami familiari che hanno radici lontane, ma forti e vitali, tanto da trasmettere l’energia necessaria ad andare avanti. È la storia di una malattia, ma anche della burocrazia disumana che assume le sembianze di impiegati senza anima, incapaci di vedere, ma abilissimi nel seminare ingiustizie.

Con la forza che la caratterizza, già affinata contro il male,  Marta si impegnerà a combattere per il riconoscimento dei propri diritti calpestati da burocrati freddi e indifferenti, pronti ad umiliare, aggiungendo dolore al dolore. Ma, come scoprirete leggendo il romanzo,  Marta non è una ragazza che si arrende:  anche nei momenti più bui, riesce, metabolizzato lo sconforto, a reagire contando sulle proprie risorse e sulle proprie competenze:

“Avevo un enorme potere: raccontare agli altri la vicenda. Raccontarla avrebbe fatto bene”.

Nasce così il diario online che libera Marta dall’isolamento imposto dal Covid  e la spinge alla condivisione della propria esperienza e della propria vita, tanto da divenire un simbolo, fino a vincere la lotta contro un sistema cieco e irrazionale.

La scelta di un diario online non è stata casuale:  infatti, Marta, nonostante i limiti fisici imposti dalla malattia, si è laureata a Ferrara in Scienze e tecnologie della comunicazione, è diventata una social media manager. Di fatto, svolge la  professione di consulente e formatrice freelance con  attività online. Anche il romanzo è nato da questa sua esperienza ed è stato sostenuto dalla comunità di Twitter sulla quale ha tantissimi follower, così come nella sua pagina  Instagram dove di sé scrive: “Ascolto libri, combatto ingiustizie e creo rose di carta pesta”.

Essere donne senza perdere la propria interezza

(pag. 224)

Ci sono libri che arrivano  quasi per caso, non cercati. Forse proprio per questo, come un dono inatteso, si rivelano preziosi e cari perché giungono al momento giusto. Così è “La Sibilla”, biografia di Joyce Lussu, donna modernissima, dalla vita straordinaria, che si è spesa, fino alla fine, per la liberazione politica  e culturale di donne e uomini del Novecento.

Non si può dunque affidare al caso la lettura della Sibilla, soprattutto in questo particolare momento storico,   in cui i sintomi di un rinato nazionalismo accompagnato da conati di autoritarismo, esercitato con disinvolta tracotanza, minacciano quanto Joyce è riuscita a costruire con abnegazione, assieme al marito Emilio Lussu e a decine di donne e uomini, schierati contro i regimi nazifascisti.

Di nobili origini, nata e cresciuta in un ambiente anticonformista, ma culturalmente molto stimolante, Joyce Lussu non si è mai lasciata intimidire dalla violenza fascista, subita insieme alla propria famiglia. Non ha mai perso la determinazione e il coraggio necessari a portare avanti missioni segrete  non solo in Europa, spendendosi per falsificare documenti d’identità e lasciapassare; nel trasporto di documenti e armi;  sottoponendosi ad addestramenti militari, come, se non meglio di un uomo.

 L’incontro con Emilio Lussu, fondatore di Giustizia e Libertà, di cui nel libro è raccontata anche la rocambolesca fuga dal confino di Lipari, non poteva non concretizzarsi in un comune progetto politico ed in una relazione sentimentale, sempre solida, nonostante le difficoltà, le rinunce (Joyce fu costretta ad abortire, rimasta incinta del primo figlio, rischiando la depressione), i rischi. Non poteva non trasformarsi in un rapporto simbiotico, così forte, che, racconta Joyce in “Fronti e frontiere”, uno dei suoi preziosi scritti:

La biografia di Joyce Lussu è anche la storia dell’Italia antifascista e, dopo il 25 aprile, la storia dell’Italia democratica. È soprattutto, e non a caso, la storia delle donne che hanno contribuito alla nascita dell’Italia moderna e democratica. È  anche (o soprattutto) la storia della loro emancipazione per la qual Joyce si è spesa con tutta se stessa. Sebbene bisognerà aspettare gli anni Settanta prima di conoscere il ruolo di queste donne, confinate, dalla storiografia e dalla pubblicistica, in ruoli minori, nelle retrovie. Eppure erano donne “intere”, aggettivo utilizzato da Joyce per raccontare Elisabetta, una donna sarda, conoscitrice di erbe e guaritrice, l’ultima Sibilla barbaricina.

Un carcere non è una casa

Ci sono romanzi che fai fatica a leggere, che saresti tentata di chiudere e andare oltre, ma che ti impediscono di farlo, costringendoti a proseguire, fino all’ultima pagina, magari sperando in un evento improvviso capace di sciogliere il grumo di dolore e offrire un lieto fine. Sofferto, ma comunque lieto.

“Almarina” rientra senza dubbio tra questa tipologia di romanzi.

Si tratta di “romanzi disturbanti”, come sono solita definire quelle narrazioni capaci di rivelarti un mondo che sai esistere, ma comunque lontano e di cui difficilmente entreresti a fare parte. Valeria Parrella, invece, ti conduce in quella realtà a te estranea con forza impietosa, rivelandoti la precarietà comune a tutti noi umani, insieme a Elisabetta Maiorano, la protagonista del romanzo.

Una donna non più giovane che ha sperimentato sulla propria pelle quella precarietà, ed è capace di individuarla e comprenderla nelle persone intorno a sé, riuscendo a darle un nome e a farsene carico. Insegnante di Matematica, svolge la propria professione a Nisida, nel carcere minorile ospitato dall’omonima isola  nel Golfo di Napoli, di fronte  a Posillipo il cui legame è narrato dal mito.

Nisida infatti prende il nome dalla ninfa che rifiutando l’amore del giovane Posillipo lo costrinse a morire in mare. La crudeltà della ninfa sembra dare forma al carcere minorile che si innalza come un ossimoro in un posto incantevole, quasi un locus amenus, ma di fatto luogo di privazioni.  

Valeria Parrella conosce bene l’organizzazione del carcere minorile per avervi svolto dei laboratori di scrittura creativa, come emerge dalla lettura del romanzo, ma anche per il proprio impegno a favore dei diritti dei detenuti.

Tra i ragazzi reclusi arriva Almarina, adolescente romena, giunta in Italia assieme al fratellino per sfuggire alla violenza del padre che, dopo averla abusata, l’ha quasi uccisa di botte. La ragazza porta addosso, e nell’anima, i segni della violenza paterna, ma anche degli abusi di altri  uomini, incontrati durante il viaggio. Tra Elisabetta, incapace di rimanere indifferente di fronte al vissuto della ragazza, e  Almarina  nasce un legame profondo che si concretizza nella scoperta di un comune sentire, in una quotidianità, appena abbozzata e subito interrotta. Un legame che la separazione non riesce a spezzare e spingerà Elisabetta a tentare di scrivere una nuova pagina per sé e Almarina.

Sarà possibile? La Parrella ci regalerà il lieto fine come nelle fiabe?

Rispondo subito alle domande: “Almarina” non è una fiaba e non si conclude  con “vissero felici e contenti”, il lettore, però, potrà immaginare la conclusione che sente più congeniale. Per quanto mi riguarda, io la mia non l’ho ancora raffigurata. Eppure ci penso già da qualche giorno.

Storia di un uomo tra gli uomini

L’aggettivo piccolo nel titolo non deve essere fuorviante. D’altra parte anche Catullo, nel dedicare la propria opera all’amico Cornelio Nepote usò la parola libellum il cui fine non era certo quello di sminuire il valore delle proprie poesie, quanto di dare forma al legame di familiarità con il destinatario del Liber.

Così è per il libro di Tullio Sammito dove l’aggettivo piccolo accostato a destino suona quasi come un ossimoro, visto che l’uomo, pur essendo faber fortunae suae, è ben poca cosa di fronte alla grandezza di eventi, legati dalla casualità, che ne determinano e condizionano l’esistenza.

A segnare il destino dei fratelli Sammito fu la scelta di Turiddu, il padre di Tullio di lasciare il  Friuli e ritornare in Sicilia, facendosi carico di un lungo, e per nulla semplice, viaggio di oltre tre mesi.

Dopo l’8 settembre,   Turiddu, in servizio nella Caserma PIAVE di Palmanova, si era trovato allo sbando ed era finito tra i partigiani sloveni.  Caduto  in un’imboscata di militari tedeschi,  era  stato   fatto prigioniero, insieme ai partigiani, e condannato a morte. Il caso (possiamo chiamarlo destino?) gli aveva permesso di salvarsi e di essere accolto da Silvia, una donna friulana il cui marito era al fronte, e nascosto nel fienile dove aveva conosciuto e amato Maria.     La figlia maggiore di Silvia  era consapevole della forza indissolubile che legava Turiddu a Scicli, ma aveva sognato di potere raggiungerlo in Sicilia per costruire insieme una famiglia.

Le cose, però, andarono diversamente e Maria si ritrovò sola con un figlio da crescere, Silvano, con la determinazione e la fierezza che solo l’amore sa dare.

Il legame di Turiddu con il Friuli, però,  non si spezzò mai ed egli custodì nel proprio cuore il dolore di non riuscire ad essere padre di Silvano verso il quale, seppur lontano ed assente, non mancò mai. Sino alla morte, avvenuta prematuramente, lasciando che anche i tre figli ragusani crescessero senza padre, vittime tutti di quella che, in chiave psicoanalitica, potrebbe chiamarsi “paradosso della predestinazione edipica”.

Questa, almeno, la lettura di Tullio Sammito il quale, partendo da frammenti di memoria, da mezze frasi ascoltate da bambino, dall’immagine del padre in lacrime che nasconde la lettera che sta leggendo, ha investigato, interrogato chi sapeva (lo zio paterno che aveva tenuto i contatti) è riuscito a ricostruire un puzzle e riscrivere la propria storia familiare.

Una storia che non è il racconto dei grandi eventi messi in moto dai potenti, non è, insomma la narrazione di guerre e di odi tra nazioni  che costituiscono la macrostoria. È, piuttosto microstoria, ovvero  il racconto delle vicende di uomini e donne comuni, che subiscono le scelte di chi sta in alto, che soffrono e patiscono, ma che possono anche essere  vincitori. Come nel caso di Turiddu:

“la sua vittoria è rappresentata da noi quattro figli. Senza di noi neppure sarebbero esistiti tutti i nostri discendenti: donne bellissime, uomini speciali. Figli e figlie, donne, ragazze, bambini e bambine, pronti a trasmettere a loro volta la vita”. (pag. 141)

L’insostenibile peso della leggerezza

A proposito di Calvino, nel centenario della nascita

Il Calvino metanarratore

“Una notte d’inverno un viaggiatore”

Il realismo del fantastico

Il paese dei ladri

C’era un paese dove erano tutti ladri.

La notte ogni abitante usciva, coi grimaldelli e la lanterna cieca, e andava a scassinare la casa di un vicino. Rincasava all’alba e trovava la casa svaligiata.

E così tutti vivevano in concordia e senza danno, poiché l’uno rubava all’altro, e questo a un altro ancora e così via, finché non si rubava a un ultimo che rubava al primo. Il commercio in quel paese si praticava solo sotto forma d’imbroglio e da parte di chi vendeva e da parte di chi comprava. Il governo era un’associazione a delinquere ai danni dei sudditi, e i sudditi dal canto loro badavano solo a frodare il governo. Così la vita proseguiva senza inciampi, e non c’erano né ricchi né poveri. Ora, non si sa come, accadde che nel paese di venisse a trovare un uomo onesto. La notte, invece di uscirsene col sacco e la lanterna, stava in casa a fumare e a leggere romanzi. Venivano i ladri, vedevano la luce accesa e non salivano.

Questo fatto durò per un poco: poi bisognò fargli comprendere che se lui voleva vivere senza far niente, non era una buona ragione per non lasciar fare agli altri. Ogni notte che lui passava in casa, era una famiglia che non mangiava l’indomani. Di fronte a queste ragioni l’uomo onesto non poteva opporsi. Prese anche lui a uscire la sera per tornare all’alba, ma a rubare non ci andava. Onesto era, non c’era nulla da fare. Andava fino al ponte e stava a veder passare l’acqua sotto. Tornava a casa, e la trovava svaligiata.

In meno di una settimana l’uomo onesto si trovò senza un soldo, senza di che mangiare, con la casa vuota. Ma fin qui poco male, perché era colpa sua; il guaio era che da questo suo modo di fare ne nasceva tutto un cambiamento. Perché lui si faceva rubare tutto e intanto non rubava a nessuno; così c’era sempre qualcuno che rincasando all’alba trovava la casa intatta: la casa che avrebbe dovuto svaligiare lui. Fatto sta che dopo un poco quelli che non venivano derubati si trovarono ad essere più ricchi degli altri e a non voler più rubare. E, d’altronde, quelli che venivano per rubare in casa dell’uomo onesto la trovarono sempre vuota; così diventavano poveri. Intanto, quelli diventati ricchi presero l’abitudine anche loro di andare la notte sul punte, a veder l’acqua che passava sotto. 

Questo aumentò lo scompiglio, perché ci furono molti altri che diventarono ricchi e molti altri che diventarono poveri.

Ora, i ricchi videro che ad andare la notte sul ponte, dopo un po’ sarebbero diventati poveri. E pensarono: – Paghiamo dei poveri che vadano a rubare per conto nostro -. Si fecero i contratti, furono stabiliti i salari, le percentuali: naturalmente sempre ladri erano, e cercavano di ingannarsi gli uni con gli altri. Ma, come succede, i ricchi diventavano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. 

C’erano dei ricchi così ricchi da non avere più bisogno di rubare per continuare a esser ricchi. Però se smettevano di rubare diventavano poveri perché i poveri li derubavano. Allora pagarono i più poveri dei poveri per difendere la roba loro dagli altri poveri, e così istituirono la polizia, e costruirono le carceri.

In tal modo, già pochi anni dopo l’avvenimento dell’uomo onesto, non si parlava più di rubare o di esser derubati, ma solo di ricchi e poveri; eppure erano sempre tutti ladri. Di onesti c’è stato solo quel tale ed era morto subito, di fame.

Rinunciare alla vita come punizione per essersi amati

"L'amore di Lucia per me, a me in persona sicuramente e semplicemente destinato, sta nl non avermi portata con sé nella morte, sta nel dove non mi ha portata e nel suo avermi riconsegnata alla vita. Alla vita di tutti. Facendo, della mia vita, fin dalle sue origini, vita che torna a tutti"

Quello che vi racconto oggi non è un romanzo.

È molto di più.

 È il resoconto di un’indagine svolta – con la disperazione dell’amore di una figlia che comprende e non giudica –   per ricostruire la storia della madre naturale che, negli anni Sessanta, è stata protagonista di un episodio di cronaca su cui i giornali dell’epoca hanno sentenziato sulla base di pregiudizi e perbenismi fondati sull’ignoranza. Ignoranza che non è solo non conoscenza dei fatti, ma soprattutto mancanza di cultura. Un esercizio che oggi, non solo la stampa, ma anche i social esercitano con superficialità, come nel caso della vicenda del piccolo Enea.

Perché, come oggi il piccolo Enea, nel 1965 Maria Grazia Calandrone venne abbandonata da mamma Lucia come estremo atto di amore, nella ferma convinzione che rinunciando all’amore più grande della sua dolorosa esistenza, la figlia, avrebbe potuto permetterle di vivere quella vita che le era stata negata.

“Dove non mi hai portata” è una storia devastante. La protagonista è  una donna, figlia “indesiderata” perché la quarta femmina di una famiglia contadina: giunta al posto del maschio tanto atteso, fin da piccola deve imparare che “prendere la vita è muoversi da soli e poi durare”.  Quella di Lucia è la storia di tante donne del sud contadino del dopoguerra: non possono studiare perché devono aiutare in casa e nei campi. Non sono libere di amare: il marito viene imposto dal padre, con la violenza e la minaccia: i genitori

“legano le ribelli a un albero coperto di formiche

e le lasciano lì tutta la notte,

per piegare la loro volontà a matrimoni indesiderati”.

Con Lucia non sarà necessario arrivare a tanto, nonostante faccia “i numeri del circo” perché non vuole sposare Luigi, “un infelice e un obbediente”, incapace di scegliere e decidere, manovrato dai propri familiari  i carnefici di Lucia. Negli anni del matrimonio, mai consumato, Lucia sarà  trattata come una schiava: picchiata e costretta a lavorare nei campi (mentre Luigi dorme, giorno e notte), rimane senza cibo per giorni. Tutti in paese sanno, anche i genitori di Lucia, ma nessuno fa niente, perché, con le nozze, la moglie diventa proprietà del marito.

Fino a quando, Lucia incontra Giuseppe, “un uomo capace di sognare insieme a lei il sogno semplice del futuro”. Conosce l’amore, da cui nascerà  Maria Grazia, figlia della colpa e del tradimento, all’epoca considerato reato penale. Lucia e Giuseppe sono costretti a lasciare il paese e raggiungere Milano, sperando di potere costruire una famiglia.  Un sogno impossibile da realizzare e che farà maturare nei due amanti la decisione di rinunciare alla figlia e suicidarsi nel Tevere, pagando così “l’orgoglio di  essersi amati”, in una società che giudica e condanna perché

“per quanto si desideri la gioia,

si ha la ferma coscienza di essere

un’irrisoria particella del gran corpo sociale”.

L’amore che non basta

Anna, oramai anziana, un giorno non ha fatto più ritorno a casa dove il marito, Severino, l’ha attesa, giorno dopo giorno. Fino a quando, un anno dopo, in un grigia alba invernale, trascinando una vecchia valigia, Severino parte dal porticciolo di Stromboli (dove si erano trasferiti dopo la pensione) per     ritrovare  e riportare a casa la donna della sua vita, perché questo è stata Anna per Severino.  

Per un intero anno, Severino si è preparato al viaggio, con dedizione e rigore, passeggiando nell’isola per preparare un corpo stanco e malato al lungo pellegrinaggio lungo la Sicilia orientale, in una sorta di via crucis, di città in città, tra i luoghi vissuti e, apparentemente, solo apparentemente, condivisi: Librizzi, Siracusa, Oliveri…  Nelle città abitate e sofferte, incontrando gli amici della giovinezza, riannodando i fili di una vita, rievocando brevi attimi di gioia e dolori profondi,  Severino scoprirà una verità che negli anni gli era sfuggita, ma che, molto probabilmente, non aveva saputo leggere.

Accompagnando Severino, il lettore incontrerà, senza maschere né finzioni,  Anna, seguendola dagli anni della fanciullezza alla maturità. Il viaggio di Severino è dunque il pretesto per  ricostruire la storia di Anna, attraverso un alternarsi di voci e intrecci,  felicemente costruiti dall’autore, un esordiente che promette di regalarci altre opere di grande valore narrativo. Mentre Severino si muove nel presente della ricerca, riconquistando e rileggendo il tempo vissuto, vediamo Anna vivere una vita che non ha scelto, vittima della volontà altrui, accettata per non fare soffrire chi le vuole bene.

   “Le mamme a volte sono egoiste.

Non lo fanno apposta, Dio le mette al mondo per proteggere i figli

e quando è ora non sanno come si fa a lasciarli andare”. 

È  la riflessione che Severino regala ad una giovane donna incontrata all’inizio del viaggio, una riflessione che, come accade a chi ha tanto vissuto, è frutto dell’esperienza di una vita, del dolore sperimentato nella propria vita  o in quella di altri. Nel caso specifico nella vita di Anna, costretta a soffocare il desiderio di vivere come una donna libera e seguire la volontà della madre per la quale:

“Na fimmina nasce per essere mugghìeri di un uomo e mamma d’un figghiu”.

Così Anna, dopo avere provato a sottrarsi,  è stata moglie, cedendo all’amore di Severino; ha cercato disperatamente la maternità e quando ha messo al mondo (facendosi beffa della medicina che la voleva sterile) il proprio figlio avrebbe voluto legarlo a sé, condizionandone l’esistenza, decidendo per lui, pur sapendo che “Il bene di una mamma è pericoloso, può essere acqua e zucchero, ma pure veleno”.

Matteo Corrente, pagina dopo pagina, con profondità e pietas ci regala il ritratto di una donna che non ha saputo ribellarsi, probabilmente, come dice Severino, per mancanza di coraggio. Una donna, comunque, che non può essere giudicata, ma che suscita nel lettore sentimenti di compassione  (inteso nel significato più alto, “patire con”) empatia e solidarietà.

Conoscere per Essere: la Filosofia

“La filosofia è un inarrestabile viaggio di crescita individuale e collettivo, al termine del quale potrebbe sorgere in noi il desiderio di diventare artefici del nostro destino” (pag. 22)

Primum esse, deinde philosophari. Il vecchio adagio latino dovrebbe diventare la stella polare della nostra epoca in cui molti sedicenti maestri, complici anche i social network che danno a chiunque la possibilità di esprimersi su tutto, si ergono a lettori critici, pronti a philosophari, manifestando, però, il vuoto umano e culturale di cui sono portatori. Per essere filosofi, però,  bisogna prima essere e per essere è necessario conoscere, abbracciare un Sapere che non è mai finito, che è sempre rimesso in discussione, secondo l’insegnamento di Socrate: so di non sapere. Unica certezza data all’uomo saggio che ricerca la verità. Una certezza che, oggi più che mai, epoca di sofisti del nulla, come dicevamo, sarebbe veramente rivoluzionaria e porterebbe alla Filosofia, intesa come conoscenza e studio, secondo l’insegnamento degli antichi filosofi che furono astronomi, filosofi, matematici, geografi…  ricercatori e portatori di conoscenza e per questo temuti dal potere che li perseguitarono e ne decretarono la morte. Come Ipazia, Anassimandro, Epicuro, Olympe de Gouges, Marx  alcuni dei filosofi di cui il prof. Saudino ricostruisce la vicenda umana e il pensiero nel suo volume di indubbio successo, considerate il numero di edizioni già date alle stampa.

Il Prof. Saudino a Ragusa lo scorso giugno,
durante l’interessante e partecipata conversazione sul suo libro
che ho avuto il privilegio di presentare.

Il successo del Prof. Saudino e, naturalmente, della Filosofia potrebbe sembrare una contraddizione visto che , secondo il detto popolare che l’autore ha ben presente, la filosofia è quella cosa con la quale o senza la quale tutto rimane tale e quale. Parole che sembrano perfette per una  società super tecnologica, nella quale sembrano prevalere le scienze applicate, dove bisogna produrre, dove le multinazionali promuovono progetti finalizzati a distruggere la scuola del sapere nel nome di una scuola di competenze che in maniera altisonante sembrano talora orientati a distruggere la Conoscenza che rende liberi e sviluppa il Libero Pensiero (oltre alle competenze!).

 Sostenere che la filosofia non serve a nulla è, da parte del Prof. Saudino, ma anche della vostra lettrice,    una provocazione perché tutti noi siamo coscienti del fatto che la Filosofia oltre ad essere  “ il sapere più nobile”, – come già aveva detto Aristotele –  rende veramente liberi in quanto (sono queste le meraviglie che ci vengono rivelate nella prima parte del libro) serve a creare problemi, a fondare scelte, immaginare altre realtà, criticare il potere, prepararsi a morire, interrogarsi sulla vita. Insomma, ci rende Uomini e ci distingue dai bruti, perché solo l’Essere Umano, per quanto sappiamo ad oggi, è capace di interrogarsi, conoscere, avere consapevolezza di sé e del mondo.

Niente resterà impunito

Il racconto doloroso di una generazione perduta

Alberto Boscolo è uno studente, uno come tanti:  dopo la maturità (superata con il massimo dei voti) si è iscritto alla Facoltà di Lettere e Filosofia alla Statale di Milano e, come tanti giovani, si è lasciato affascinare dal sogno  di un mondo in cui non ci siano sfruttati e sfruttatori . Un sogno che in pochissimo tempo lo porta a superare i limiti della legalità , aderendo alle Brigate Rosse e partecipando  (in maniera attiva e convinta) alla lotta armata.

Alessandro Bertante si fa da parte per dare voce direttamente al suo protagonista, lasciando che sia lui a ricostruire il percorso che segna la trasformazione dello “studente sbarbato della Statale”, impegnato nel volantinaggio  davanti alla fabbrica della Sit Simens, nel  complice e ideatore (accanto a Renato Curcio) di feroci azioni criminali firmati dalle Brigate Rosse.

Il racconto  ci conduce nell’Italia degli anni Settanta tra giovani che convivono con i loro figli in case occupate, condividendo il cibo e gli ambienti, con i nuovi arrivati, spesso sconosciuti. Giovani che avevano fatto loro il mito di un Unione sovietica di fatto  mai esistita:

“Inneggiavano a Lenin, a Mao e a Stalin 

ma facevano già parte del nemico

e  alcuni dei dirigenti più scaltri

lo sapevano con certezza ma gli andava bene lo stesso” .

Il passaggio alla lotta armata, che ha segnato la storia del nostro Paese in maniera ancora oggi indelebile, scaturisce dall’attentato di Piazza Fontana, letto già allora come la prima strage di Stato, e dal presunto suicidio dell’anarchico Pinelli. Una lettura, quella del suicidio, immediatamente negata dal gruppo di Bertante per il quale lo Stato “ammazzava impunemente”. Ragione per cui si diffuse la convinzione in   “molti compagni che non era più tempo di farsi uccidere senza combattere”.

Quello che accadde successivamente (rapine sanguinarie per finanziare il movimento, sequestri lampo attentati dimostrativi  fino al sequestro Moro) è storia  condivisa. Come sia maturato tutto ciò, quale sia stato il costo pagato da giovani come Alberto Boscolo viene raccontato in un misto di storia ed invenzione da Alessandro Bertante che , utilizzando fonti e documenti storici, ricostruisce con l’estro del narratore, il percorso di giovani come Alberto Boscolo, un’intera generazione bruciata da un’ideologia, spesso non adeguatamente supportata:

“E poi c’ero io che non avevo una visione ideologica precisa,

ma mi lasciavo trascinare dalla voracità dei vent’anni e dall’urgenza dell’azione …

cercando di vivere la propaganda armata come momento politico principale

e, in qualche modo fondante, della mia visione rivoluzionaria”.