La notte tra il 13 e 14 settembre 1321 Dante Alighieri chiude la propria esperienza terrena, andando a scoprire “se quanto aveva immaginato in tutti quegli anni era vero”: così si conclude la biografia di Alessandro Barbero – in questi giorni al terzo posto della classifica dei libri più venduti – il quale chiama Dante “profeta, per avere immaginato e messo in rima un mondo ultraterreno che ancora oggi continua ad affascinare i lettori di ogni età.
La scoperta di cui parla Barbero è proprio relativa all’aldilà che, nella finzione poetica, Dante aveva avuto il privilegio di potere visitare per mostrare agli uomini dove la loro vita avrebbe potuto condurli.
L’avvincente ricostruzione di Barbero si apre con la battaglia di Campaldino – certamente, ben nota ai lettori, anche a quelli che si sono avvicinati alla Commedia soltanto a scuola – a cui Dante partecipò come cavaliere, nel ruolo di feditore schierato in prima linea. Battaglia che vide gli uni contro gli altri armati guelfi fiorentini e ghibellini aretini, protagonisti di uno dei tanti episodi che insanguinarono la storia dell’Italia comunale di cui Dante fu protagonista e vittima.
La celebre battaglia tra fiorentini e aretini nella ricostruzione della biografia di Dante viene utilizzata da Barbero per definire la condizione sociale del poeta: sicuramente non di nobili origini, tuttavia abbastanza ricco da permettersi di combattere armato e a cavallo ed esibendo lo stemma di famiglia. Uno stemma parlante, come ci spiega Barbero “con un’ala d’oro in campo azzurro, fondato su un’improbabile interpretazione dotta del cognome: Aligerii, i portatori d’ali” . (pag. 46)
Attraverso il dialogo serrato con le fonti (la biografia vanta ben ottanta pagine di note fittissime, ahimé a fine testo, posizione che non accompagna (né agevola) la lettura, come sarebbe accaduto se fossero state collegate a piè di pagina) Barbero ricostruisce la vicenda pubblica e privata di un uomo incastrato nei meccanismi della politica dell’età comunale, caratterizzata da lotte sanguinose e scelte impopolari, non sempre eticamente accettabili. Come, purtroppo, accade ancora oggi nell’agone politico.
Dante, tuttavia, non fu solo un uomo politico. Fu, innanzitutto, un letterato, un poeta di talento che giovanissimo, grazie ai propri versi, venne accolto dall’élite cittadina, da poeti più anziani di lui, quali Forese Donati e Guido Cavalcanti, ottenendo fama e riconoscimenti.
Fu grazie al prestigio personale acquisito con la poesia che durante l’esilio venne accolto (e diremo quasi conteso) dai Magnati, certi del prestigio che la presenza di Dante avrebbe dato alla loro corte.
La biografia di Barbero aiuta a fare chiarezza su alcuni aspetti controversi della vita di Dante che può essere compresa soltanto se letta attraverso le vicende storiche dell’Italia Comunale. In particolare, la collocazione del poeta nello schieramento dei Guelfi Bianchi che non può essere considerata come scelta assoluta. Non sarebbe, dunque, del tutto erronea la definizione di “ghibellin fuggiasco” che Foscolo nei Sepolcri dà di Dante. Sia perché l’appartenenza all’uno o all’altro schieramento – come ci racconta Barbero – non era, all’epoca, definita e certa. Sia perché Dante, negli anni dell’esilio, assunse una posizione tendenzialmente (oggi si direbbe responsabilmente) filo ghibellina. E non poteva essere altrimenti, viste le difficoltà dei comuni di amministrarsi liberamente e il tributo pagato da molti.
Quello corrisposto da Dante è noto a tutti: l’esilio che lo vide ridotto in miseria, costretto a chiedere aiuto e sostegno, perdendo la propria libertà, di uomo e di letterato. Una condizione umiliante che, come leggiamo nella profezia di Cacciaguida riportata da Barbero, lo porterà a scoprire
… come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale.