Una donna umiliata, picchiata, massacrata dalle mani dell’uomo che avrebbe dovuto amarla e proteggerla. Una donna ferita profondamente nel corpo e nell’animo.
Una donna capace di rialzarsi e riscattarsi, apparentemente dura e anaffettiva, ma che si rivela un’amica fedele, capace di riconoscere il dolore altrui e curarlo.
Tutto questo, e altro ancora, è il commissario Teresa Battaglia creato da Ilaria Tuti e ancora una volta protagonista di un giallo “storico”, come mi piace definire la narrativa investigativa della scrittrice friulana.
La vicenda che vede protagonista il commissario Battaglia si svolge su diversi piani temporali: il presente (con il ritorno in scena di un omicida seriale, vecchia conoscenza della Battaglia a cui è legato da un rapporto apparentemente ambiguo, ma che, nel corso della lettura, impareremo a conoscere) il passato (ventisei anni prima, quando la Battaglia era ancora una giovane ispettrice, oggetto di pregiudizi da parte dei colleghi e alle prese con un marito egoista e violento). A questi livelli temporali bisogna aggiungerne un terzo che ci conduce nella città di Aquilea del IV secolo dopo Cristo, agli albori del Cristianesimo quando cominciava a scomparire il culto isiaco dove la vicenda di “Figlia della cenere” affonda le proprie radici.
In quest’ultimo romanzo, Teresa Battaglia si mostra con tutta la propria debolezza e fragilità, desiderosa di farsi da parte, di congedarsi dai suoi ragazzi, dalla squadra che ha costruito, per abbandonarsi al male che le sta divorando la mente e contro il quale potrà soltanto difendersi, ma mai vincerlo. Non ci riuscirà, perché costretta dagli eventi che la costringeranno a indagare, facendo i conti con il proprio passato, un passato dolorosamente straziante, in parte condiviso da altre donne.
La narrazione supera i confini dell’indagine investigativa e si apre ad una riflessione sulla capacità delle donne di liberarsi da rapporti tossici che rischiano di ucciderle, sulla capacità delle donne di rinascere
“e non dalla costola di un uomo
che si credeva fatto a immagine e somiglianza di un dio,
ma dalle proprie, incrinate, doloranti, spezzate”.