Rimaniamo amabili (se si può)

Quando inizia l’inverno? Se la risposta può essere scontata, qualora si considerasse la stagione metereologica, diventa più complessa se si pensa, metaforicamente, all’esistenza umana. Perché ciascuno potrebbe individuare un’età diversa in considerazione delle esperienze vissute, delle aspettative e dei progetti.

Per Auster l’inverno ha avuto inizio dopo i   sessant’anni, alla vigilia di un compleanno che lo spinge a rivedere tutta la propria esistenza di uomo che è stato  figlio,  marito, padre, autore di successo (dopo anni di difficoltà), viaggiatore in Europa e nel mondo, abitatore di tante, numerose case dalle quali si è sentito accolto o rifiutato.

Insomma, è stato,  in parte  o in tutto, quello che ciascuno è nel corso della propria esistenza, con la certezza che, come leggiamo fin dalle prime pagine, “la vita è tutta contingenza, salvo l’unico fatto necessario che prima o poi finirà”.

Giunge per tutti il momento in cui bisogna guardare indietro e capire come si è giunti al punto in cui ci si ritrova, perché quello che si è oggi è sempre il risultato di tanti piccoli episodi che magari, mentre viviamo, non ci sembrano significativi, ma che, comunque, segnano la nostra esistenza, in maniera più o meno visibile.

Per Auster il segno tangibile della vita trascorsa sono le cicatrici “specialmente quelle sul viso che vedi ogni mattina quando ti guardi allo specchio, nel bagno per pettinarti o per farti la barba”. L’inventario quotidiano (è l’autore a definirlo così) delle cicatrici  lo riportano alle ferite che le hanno lasciate. Tuttavia, Auster è consapevole che ben altre cicatrici, meno visibili, hanno segnato la sua esistenza. Forse le più significative sono quelle degli errori commessi per non avere compreso subito la strada da intraprendere, per essere stato “sempre smarrito, sempre a prendere la direzione sbagliata, sempre a girare in tondo”.

Fino a quando, però, imparando dagli errori fatti  (forse soprattutto anche per gli errori commessi) la strada giusta appare, anche se inattesa. Come inattesa è la possibilità che a percorrerla non sarai più solo, sebbene te lo fossi ripromesso. A Auster accade quando incontra quella che da oltre trent’anni è la sua seconda moglie il cui amore è  diventato una  presenza costante,  dopo un primo matrimonio deludente  ed una serie di esperienze con “ragazze mezze matte, entrambe affascinanti e autodistruttive, ragazze a cui aveva donato il suo cuore, ma che “non potevano o non volevano riamarti”. Quando ha incontrato, per caso, la sua seconda moglie, Auster riconobbe in lei “non finzione … non qualche proiezione delle tue fantasie interiori, ma una persona reale” capace di imporsi con “la sua realtà su di te dall’istante in cui vi metteste a parlare”.

Diario d’inverno appare quindi come il percorso di un uomo che, a volte annaspando tra le incertezze e gli errori, come accade a ciascuno di noi, riesce a costruire un’esistenza che, anche tra ricadute e inciampi, posa, comunque, su una base solida. Per questo motivo, all’imbrunire non si può che esprimere un solo auspicio che Auster ruba all’aforista ottocentesco Joseph Joubert: Si deve morire amabili (se si può).

È proprio su “se si può” che Auster sembra puntare per la propria vita futura, ritenendo  che  “non c’è successo umano più grande che essere amabili fino alla fine, che sia una fine amara o no”.

“Nei libri è racchiusa una possibilità di vita”

Ci sono libri disturbanti.

Libri che ti conducono in mondi che sai esistere, ma che – essendo lontani, non solo geograficamente –  non riescono a toccare a fondo il tuo animo. Fino a quando la letteratura, tra finzione e realtà, non ti spinge con forza all’interno dei bassifondi di una grande metropoli, in una enorme discarica, dove dei bambini (i cosiddetti “niños de la basura”) trascorrono le loro giornate alla ricerca di vetro, lattine e quanto si può riciclare, respirando i fumi degli incendi che vengono appiccati per distruggere, insieme con l’immondizia, carcasse di animali, soprattutto i cani sottratti agli uccelli rapaci.

La metropoli è Città del Messico e tra i bambini che trascorrono le loro giornate in discarica ci sono Juan Diego e la sorellina Lupe, figli di una prostituta che ha avuto una relazione con il boss della discarica il quale li ha accolti nella propria baracca. Rispetto agli altri bambini Juan Diego e Lupe godono di una posizione privilegiata, non solo perché protetti dal boss della discarica. I gesuiti dell’orfanotrofio di Oaxaca, dove la madre fa le pulizie, vorrebbero allontanarli dalla discarica, per sottrarli ad una vita miserevole e rischiosa.

Juan Diego e Lupe sono due ragazzini particolarmente dotati: lui ha letto decine di libri sottraendoli al fuoco della discarica, alcuni anche in inglese, imparando una lingua straniera in maniera autonoma. Sono libri difficili che affrontano argomenti filosofici e teologici che  Juan Diego legge a voce alta a Lupe la quale, grazie a quei libri, ha una propria visione del mondo e della religione. In particolare, a Lupe non va completamente a genio la supremazia dalla Vergine Maria rispetto alla Madonna indigena che, a suo dire, sarebbe stata tradita dai cattolici a favore della prima. Una questione teologica che la ragazzina, poco più che una bambina, affronta con veemenza, manifestando il proprio rifiuto, senza mezzi termini, verso la Madonna  e ciò che questa rappresenta.

Il ricordo di Lupe, degli anni trascorsi alla discarica, del rapporto con i gesuiti, sono di fatto il nostos (il ritorno a casa) che Juan Diego Guerrero, narratore di successo, intraprende attraverso la memoria durante un viaggio nelle Filippine, per onorare una promessa che aveva fatto ad un giovane americano amico delle prostitute. La narrazione, dunque, si svolge tra passato e presente, su due diversi piani temporali, perché “Invecchiando, e anzitutto quando ricordiamo e sogniamo, viviamo nel passato. Certe volte è lì che ci sentiamo vivi veramente”.

È come se gli  anni trascorsi negli Stati Uniti, dove  Juan Diego si è affermato come scrittore, lo avessero  sottratto alla vita che riconoscere essere nella basura, quando al suo fianco c’era la piccola Lupe. La bambina, a causa di un difetto congenito, riusciva ad emettere solo suoni confusi che, tuttavia, il fratello comprendeva diventando l’interprete della sorella, legame tra lei e il mondo.  Lupe, inoltre, sapeva leggere nella mente delle persone che incontrava e , ad un certo punto, riusciva anche a comprendere il futuro, a capire a cosa era destinato il fratello.

Irving ci ha regalato un romanzo ricco di personaggi straordinari che hanno il coraggio di fare scelte coraggiose, capaci di determinare il loro futuro e quello degli altri. Lupe, certamente, è uno di questi personaggi. Poi ci sono el señor Eduardo e Flor (un americano dell’Iowa che rinuncia alla vita religiosa per amore di una trans) che ad un certo punto diventano i genitori di Juan  Diego, portandolo via da Città del Mexico per  vivere un’altra vita.

Una possibilità, senza dubbio resa possibile dalla generosità dell’insolita coppia, ma soprattutto dallo stesso Juan Diego, sulla base del principio assoluto homo faber fortunae suae.

Il niño de la basura aveva, infatti, cominciato a prendere in mano il proprio destino quando, cosa insolita nella discarica, aveva imparato a leggere, evento fondamentale per la sua esistenza perché, come gli dirà il senor Eduardo:  «Nei libri è racchiusa una possibilità di vita, come del resto nella tua immaginazione. E non esiste soltanto il mondo fisico, neanche in questo posto».

La fatica delle donne.

La copertina del romanzo di Melania Mazzucco, rappresenta l’allegoria dell’Architettura. Una professione vista come una donna, ma preclusa alle donne per secoli.
Ho presentato il libro nei locali della Libreria Flaccavento, in occasione de “Il maggio dei libri”.

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“Un’ospitalità senza proprietà”

Nella ricorrenza della festa della mamma, durante la quale non mancheranno luoghi comuni e commenti sdolcinati, riflettere sul ruolo della maternità oggi, in un’epoca di profondi cambiamenti, in cui imperano egoismo e individualismo, è utile, se non necessario.

Il libro di Massimo Recalcati, figura oramai nota per gli interventi televisivi, può certamente offrire spunti interessanti per contestualizzare la maternità nel nostro tempo.

Viviamo in una società in cui tutto si consuma nell’immediato, nell’ora e subito, quando invece, come scrive Recalcati “la maternità è una grande figura dell’attesa”. A cominciare dalla gravidanza, un’attesa che lo psicoanalista definisce “speciale” perché “non assomiglia a nessun’altra attesa. Non è attesa di qualcosa: di un treno o di un anniversario, di un concerto o di un contratto. La maternità è un’esperienza radicale dell’attesa perché mostra come l’attesa non sia mai padrona di ciò che attende” (pag. 25). Già durante l’attesa, le madri siamo consapevoli dell’alterità che portiamo dentro, in quanto, secondo Recalcati “rende possibile un altro mondo”.

Sarebbe illusorio credere che l’attesa si esaurisca con il parto: quando il bambino verrà alla luce inizieranno tante altre attese che ne segneranno la crescita e lo sviluppo. Un ‘attesa continua, dunque, che, dal momento del concepimento, definisce la peculiarità della madre.

Allo stesso modo, distintivo e particolare è anche l’amore materno: sentimento non genericamente offerto al mondo perché non è amore fine a se stesso o amore universale, ma “rivela che, quando si ama, si ama sempre una vita particolare, il soggetto nella sua singolarità” (pag. 65).

Se è vero che l’amore materno è incondizionato e continua ad esistere anche quando si prende atto che il proprio figlio è imperfetto e lontano dall’ideale (anzi, dice Recalcati, il figlio viene amato proprio perché imperfetto), è anche vero che l’esperienza della maternità non “è sufficiente ad appagare la propria vita” (p. 133). Per dimostrarlo, Recalcati indica il mito di Medea, vista come l’incarnazione della ribellione della donna alle regole sociali.

Lo psicoanalista spiega questo aspetto della femminilità attraverso il “complesso di Medea” . Il mito greco ci dice che “nemmeno la maternità è sufficiente ad appagare la propria vita, a compensare la perdita dell’amore, che nessuna donna può mai essere assorbita e abolita nella madre”.

Se ciò, avvenisse (ma questo è il mio punto di vista) si tradirebbe il senso proprio della maternità che, di fatto, deve essere concepita come “un’ospitalità senza proprietà di cui la vita umana necessita”. (pag. 184)

“Di doman non v’è certezza”

Incontro con Riccardo La Cognata, scrittore Ragusano da anni vive e lavora a Roma.

In un momento come quello attuale  in cui ogni cosa sembra sospesa al punto che perdiamo la consapevolezza del succedersi dei giorni e delle ore, il romanzo di La Cognata ci porta a riflettere sul valore del tempo, argomento caro a filosofi e letterati. Da Seneca a Sant’Agostino, passando per Orazio e Virgilio, il tempo è sempre stato considerato come un bene prezioso, da non sciupare, perché difficilmente ci sarà restituito.

Seneca, in particolare, invitava l’amico Lucilio a vivere il presente, l’unico tempo incontestabile,  essendo il passato già trascorso e non avendo certezza del futuro che potrebbe anche non esserci. Da qui il consiglio che già in precedenza il poeta latino Orazio aveva efficacemente sintetizzato nel celebre carpe diem e che Lorenzo il Magnifico faceva proprio con l’altrettanto noto di doman non v’è certezza.

È quindi quello presente il tempo che siamo chiamati a vivere pienamente, ma che cosa accadrebbe se nell’oggi fosse possibile avere consapevolezza di quello che accadrà nel futuro? Se potessimo conoscere anche pochi istanti del tempo che sarà? Se fosse possibile anticipare gli eventi umani con la potenza della mente, aumentandola miliardi di volte?

La possibilità di anticipare gli eventi umani con la potenza della mente è l’argomento della ricerca di un neuropsichiatra americano che muore improvvisamente in un ristorante delle campagne laziali il cui proprietario, Vasco Mattini, si lancia in un’indagine svolta parallelamente all’amico/maresciallo, Sauro Corezzi, abituale frequentatore del locale, significativamente chiamato “Verziere dell’orso”.

Chi sia l’orso, tocca al lettore scoprirlo, sappia, intanto, che il cuoco/investigatore è un personaggio schivo con tratti da misantropo. Un uomo diretto, conciso, brutale, al punto da apparire profondamente antipatico, ma   colto (grazie alle molte letture da autodidatta) e profondamente sarcastico: “Già di suo era pesante, ma quando lo facevano incazzare diventava semplicemente odioso”, scrive  Riccardo La Cognata (pag. 18).

Nonostante questo caratteraccio, in merito al quale nel romanzo vengono tentate anche giustificazioni di carattere psicoanalitico, Vasco riesce a procurarsi le simpatie del lettore  che viene coinvolto nell’indagine investigativa  che conduce alla scoperta di una setta (quella degli Stenomeni) i cui componenti sono: Saul Bellow, Akira Kurosawa, Athena Minerva e Hyeronimus Bosch.

Vi starete chiedendo come sia possibile, ma, trattandosi di una indagine investigativa, mi guarderei bene da svelare la fine, togliendo il piacere della lettura che alterna pagine veramente esilaranti (come l’incontro tra Vasco e il suo fornitore di verdure Poliziano Ficino per il quale il detto latino nomen omen non è assolutamente vero) a  pagine di riflessioni filosofiche e musicali a colpi di scena che coinvolgono personaggi insospettabili.

Abbiamo intervistato l’autore del libro, trovate il testo dell’intervista in “Letti per voi”.

Protagonista de “Il senso del tempo” è un cuoco/filosofo, colto e dai raffinati gusti musicali, misantropo, ma capace di tessere forti relazioni di amicizia. Perché proprio un cuoco?

Potrei dire che tra i miei hobby, la cucina (attiva e passiva) è ai primi posti della classifica. Ma la verità è che il Senso del Tempo è stato concepito in un periodo di “quarantena” lavorativa in Asia di quasi quattro mesi. Per un certo periodo, mentre infuriavano i monsoni e non si poteva uscire dall’hotel dove alloggiavo, uno dei pochi esseri umani con cui interagivo era lo chef del ristorante dove pranzavo e cenavo tutti i giorni. Un personaggio particolare, tirannico con i sottoposti, ma anche generoso e soprattutto dotato di una rara intelligenza. Piacevoli le conversazioni con lui e anzi siamo ancora molto amici. Però a differenza di Vasco, a lui piace farsi chiamare chef e soprattutto la sua è un’intelligenza molto pratica e quindi meno incline alle speculazioni filosofiche. Quello è un tratto personale che ho innestato in Vasco, così come una certa crepuscolarità e la tendenza a trascendere, anzi al trascendente. In generale, e al di là delle suggestioni del momento, mi intrigava però dare a questi moderni alchimisti che sono i cuochi, una “forma” e uno scopo diversi da quelli che vediamo in televisione. E qui potrei continuare con i ricordi della cucina di mia nonna, di mio nonno pasticcere sopraffino ecc.

La vicenda ruota intorno alla morte di uno scienziato avvenuta nel ristorante di Vasco. Uno scienziato che indaga sul tempo perché vuole, attraverso l’uso, rivelatosi fatale, di sostanze lisergiche conoscere il futuro. Com’è nata questa idea?

Una sera di tanto, ma tanto, tempo fa mi trovavo a Venezia e andavo a zonzo per le calli avvolte da una fitta nebbia autunnale. Incontro per strada un tizio sudamericano che si era perso. Era il cameriere di una nave da crociera in libera uscita. Mi chiede un’indicazione e siccome vado nella stessa direzione gli dico di seguirmi. Comincio a scambiare qualche parola con lui e poi d’un tratto semplicemente sparisce, inghiottito dalla bruma. Ogni tanto, continuo a chiedermi se magari non sia stata un’allucinazione o se il tizio non sia stato risucchiato da una crepa nello spazio-tempo. Si sa, Venezia è una città misteriosa. Ma l’idea è nata da quell’episodio bizzarro. Non so perché o come mi sia ritornata in mente mentre stavo a Colombo, ma da lì ho cominciato a fantasticare e siccome in quel momento mi trovavo in balia del tempo, sospeso in una bolla di attesa come oggi tutti gli italiani, ho cominciato a sommare gli elementi e a dargli una linea, raccontandomi una storia che fosse coerente con quella coazione all’attesa che provavo. La parte sull’espansione sensoriale è frutto di altre letture personali alcune dotte, altre un po’ meno!

Nel corso della propria indagine (che svolge parallelamente a quella dell’amico maresciallo Sauro) Vasco s’imbatte in una setta particolare. Da cosa nasce questo interesse per il mondo delle sette?

Il Senso del Tempo gioca con il modello narrativo dei classici greci, che siccome non sapevano come far finire i loro drammi, facevano intervenire sempre un deus ex machina. Insomma, i destini degli uomini erano tessuti da divinità i cui pensieri o trame erano imperscrutabili per i miseri mortali. Quale metafora migliore per uno scrittore che dà vita ai personaggi e poi gliela toglie nel finale? Comunque, la setta degli Stenomeni, inventata di sana pianta, mi sembrava la logica declinazione di questo concetto, cioè dell’eterodirezione degli uomini. Zero interesse personale per le sette, che trovo limitate e limitanti, parecchio invece per l’esoterismo, ma inteso come strumento per raggiungere la cognizione di noi stessi, cioè della nostra interiorità. Una forma di algoritmo introspettivo che mi intriga.

Possiamo ritenere “Il senso del tempo” il primo di una serie di romanzi di “investigazione psicologica” con Vasco Mattini protagonista?

Potete e dovete! Vasco non vede l’ora di avventurarsi in altri meandri cognitivi, dalla fisica, alla matematica, alla musica alla…va beh lasciamo i dettagli alla prossima investigazione … già conclusa!

A proposito del primo maggio

Matteo Cavezzali, Nero d’Inverno

“Quello che si racconta nei libri può anche accadere davvero, ma quello che è accaduto veramente non può essere scritto in nessun libro”: è la postilla con la quale  Cavezzali chiude il proprio romanzo con l’intento, pensiamo,  di dissuadere  il lettore dalla convinzione di avere aggiunto dei tasselli di verità a fatti apparentemente   lontani dal nostro tempo, ma che tuttavia molto ci dicono su questi anni e sul mondo in cui viviamo.

Tutto ha inizio nel secolo scorso, in un’America meta di migranti, molti provenienti dall’Italia, inseguendo il sogno di una vita migliore possibile a chiunque, ma non a tutti. Tra gli italiani giunti in America, dopo mesi di navigazione ammassati su una nave in condizioni estreme (che senza dubbio riportano a quelle che vivono i migranti che dal nord Africa cercano di raggiungere le nostre coste) c’è Mario Buda (che in America diventerà Mike Boda) il quale si ritrova a lavorare in una fabbrica di cappelli. Qui Buda farà esperienza dello sfruttamento della classe operaia da parte del Capitalismo per il quale il lavoro non potrà essere fermato neanche davanti alla morte di un uomo. Un tema antico e sempre attuale, ma che nell’America del primo Novecento porterà alla nascita dei primi gruppi anarchici e dei primi attentati terroristici.

A questi è legato il nome di Mario Buda, al punto che ancora oggi negli Stati Uniti l’espressione  Boda’s bomb è diventata quasi gergale per indicare una tipologia di attentati (quelli con le autobombe utilizzate, ahinoi, ancora oggi dall’Isis).  La ricerca di Matteo Cavezzali – da cui il romanzo trae spunto – nasce proprio dalla lettura di un saggio americano sul terrorismo moderno di cui Buda viene considerato l’iniziatore.

Il risultato dell’inchiesta giornalistica di Matteo Cavezzali è un romanzo storico dove accanto a personaggi realmente esistiti (come Sacco e Vanzetti, Galleani) si affollano personaggi creati  dalla fantasia dell’autore il quale dà loro voce. Il risultato è  una sorta di Spoon River dove tante voci  narrano di sé e dei protagonisti, regalandoci un racconto corale intenso e profondo. Cavezzali dà prova di come il giornalismo d’inchiesta possa condurre ad una creazione artistica in cui “storia ed invenzione” contribuiscono alla nostra conoscenza del passato, ma senza fare luce sulla verità profonda degli eventi narrati.

Molti, infatti, gli  interrogativi a cui – necessariamente – Cavezzali non ha potuto rispondere (non toccava certamente a lui), sulle ragioni per cui Buda abbia potuto – dopo l’attentato di cui è stato ritenuto l’autore   – tornare in Italia e vivere tranquillamente una vita normale, di marito e padre. Una normalità quasi “regalata” che, ci dice Cavezzali, sembra anomala nell’Italia del secondo dopoguerra dove gli americani erano significativamente presenti.

Un dubbio, quindi, s’insinua nella mente del lettore: chi ha voluto l’attentato? Gli anarchici o altri? Chi può dire che non sia stato un elemento di distrazione in un’America messa in crisi dalle bombe che ne minacciavano la sicurezza dopo la morte  di  Sacco e Vanzetti, la cui esecuzione fu voluta contro ogni ragione e prova di innocenza?

Storia di una niña mala e di un pichiruchi

La niña mala che incontriamo già nel titolo è solo in parte la protagonista femminile del  romanzo che dal Perù all’Europa, passando per Cuba e il Giappone, attraversa la storia del secondo Novecento, vista con lo sguardo di Ricardo Somocurcio, amante disperato e ripetutamente deluso.

La storia ha inizio “un’estate favolosa” del 1950 nel quartiere Miraflores di Lima dove l’adolescente Ricardo trascorre le sue giornate tra i bagni e le feste  in cui fa la sua comparsa, come un terremoto, il mambo che  sostituì tutti gli altri balli. Con un ritmo brioso e, apparentemente leggero, Vargas Llosa racconta quell’estate che segnerà profondamente la vita di Ricardo.

Infatti, proprio come un terremoto, nella vita di Ricardo irrombe anche Lily che si presenta come una ragazza cilena (ma che, scopriremo, cilena non è) capace di ispirare sentimenti amorosi e fantasie erotiche tra i ragazzi del quartiere, ma, al tempo stesso, suscitando critiche, maldicenze e invidie da parte delle ragazze, castigate e serie, rispetto alla presunta cilenita, vista come una rivale imbattibile.

Ricardo sogna di vivere a Parigi, meta raggiunta dopo la laurea dove, inaspettatamente incontrerà per la seconda volta, la cilenita di cui non aveva avuto notizia dall’estate favolosa del 1950.

Tanti anni sono trascorsi da allora e Ricardo aiuta, pur non  essendo coinvolto direttamente, dei giovani peruviani che sognano di realizzare nel loro Paese la rivoluzione castrista. Un sogno che finirà tragicamente per gli amici di Ricardo e che viene strumentalizzato dalla  niña mala per potere lasciare il Perù, per lei una  prigione, simbolo di miseria e privazioni che per tutta la vita cercherà di rimuovere, rifiutandosi di farvi ritorno e tagliando ogni legame con la famiglia di origine.

La niña mala (il cui vero nome scopriremo solo verso la fine del romanzo) si lancerà in avventure spesso  dolorose che le lasceranno segni indelebili nel  fisico e nella mente. Il disperato bisogno di raggiungere quella ricchezza  che va ben oltre la sicurezza economica la porterà a condividere la vita con diversi uomini (sposati per interesse e puro calcolo) da cui si allontanerà per trovare rifugio sicuro in Ricardo, sempre fedele ad un amore tormentato e rubato, concesso da una donna che, apparentemente, solo apparentemente, lo disprezza, perché lui pichiruchi (di poco valore)  vive da piccolo borghese, appagato del proprio lavoro, soddisfatto per avere realizzato il sogno adolescenziale di vivere a Parigi dove ha comprato un appartamento e raggiunto una discreta affermazione professionale come interprete e traduttore.

“Io rimarrei soltanto con un uomo che fosse molto, molto ricco e potente. Tu non lo sarai mai, per disgrazia”: dirà la niña mala a Ricardo, mentre si sta separando, ancora una volta, da lui.

Sarebbe riduttivo leggere le avventure della cattiva ragazza  come il racconto della disperata corsa verso l’affermazione sociale di una ragazza nata povera. Giacché il  romanzo offre  lo spunto per  soffermarsi sulle trasformazioni sociali e culturali dell’Europa tra gli anni Sessanta e Ottanta, per condividere con il lettore il sogno di democrazia di una parte della società peruviana che, divenuta parte attiva del progetto di modernizzazione,  dovrà fare i conti con una cocente delusione e col tradimento della classe politica.

Il romanzo ci spinge anche  ad interrogarsi sull’Amore (uso consapevolmente la maiuscola).

In particolare, sull’Amore vissuto con cieca abnegazione, contro ogni ragione, con  fedele dedizione: “continuavo a essere innamorato di una pazza, di un’avventuriera, di una donnetta senza scrupoli con cui nessun uomo, e io meno di chiunque altro, avrebbe potuto mantenere una relazione stabile senza finire calpestato”.

Il lettore a questo punto non può non chiedersi  cosa rende meritevoli d’amore, quale strana alchimia rende possibile perpetuare un legame indissolubile con chi elargisce dolore e umiliazioni. É sempre Ricardo a rispondere quando è costretto a riconoscere che “c’era in lei qualcosa che era impossibile non ammirare, per quei motivi che ci portano ad apprezzare le opere ben fatte, anche se perverse”.

 Sarebbe facile, a questo punto, interpretare quel “opere ben fatte” come una categoria estetica, pagando così un facile tributo alla superficialità propria del nostro tempo.

È, invece, molto altro che tocca al  lettore   scoprire.

Vite comuni

Holt è cittadina inesistente, che l’autore tuttavia colloca in Colorado, i cui abitanti vivono semplicemente, senza inseguire grandi sogni, alle prese con problemi comuni del quotidiano.

Tom  Guthrie è un insegnante di Storia alle prese con la gestione familiare perché la moglie, Elle, vive una profonda crisi personale che la porterà ad allontanarsi dalla famiglia e dai figli, Ike e Bobby, due fratelli “quasi gemelli”, di dieci e nove anni.

Victoria Roubideaux è una sedicenne (alunna di Tom) che la madre chiuderà fuori di casa perché incinta di un ragazzo che ha conosciuto d’estate e di cui non vuole rivelare l’identità. Rimasta senza un posto dove andare, chiederà aiuto alla sua insegnante, Maggie Jonas la quale l’accoglie nella propria casa dove vive con il vecchio padre. L’anziano uomo, con problemi di lucidità,  non accetterà la presenza della ragazza che  Jonas farà ospitare dai fratelli McPheron, due uomini rudi, che vivono in campagna, impegnati con la terra e il bestiame. I due anziani fratelli  riveleranno una profonda sensibilità,  accogliendo  Victoria con  affetto genitoriale ,  cercando di darle tutto ciò di cui ha bisogno, attenti e preoccupati della sua incolumità, soprattutto quando il ragazzo tornerà a cercarla.

La narrazione si svolge seguendo la quotidianità di ciascuno dei personaggi, una  quotidianità, spesso dura e dolorosa, fatta di impegni e incontri non sempre piacevoli.

Ike e Bobby, in particolare, trascorrono parte della loro giornata insieme, distribuendo i quotidiani prima di andare a scuola, preoccupati per la “malattia” della madre sulla quale vigilano in silenzio e che intenderebbero “curare”, regalandole un profumo e una crema.

Tema di fondo del romanzo è l’inizio della vita, nei suoi diversi aspetti e momenti, come emerge dalle vicende dei singoli personaggi: Victoria Roubideaux darà la vita a una  bimba, mentre i due vecchi agricoltori McPheron  saranno protagonisti di un nuovo inizio, impensabile e improbabile, di nonni e padri. Tom si affiderà a un nuovo amore e i suoi figli attraverseranno il passaggio a nuova fase che li porterà lontano dall’infanzia.

“Canto della pianura” fa parte di una trilogia (“Benedizione” e “Crepuscolo” sono gli altri due romanzi) i cui racconti sono ambientati a Holt, unico elemento che lega i romanzi i cui personaggi e le cui vicende sono completamente diverse. Lo stesso autore, mancato nel 2014, la definiva una trilogia larga, sciolta, slegata che, pertanto,  può essere letta senza un ordine prestabilito.

Per quanto riguarda “Canto della pianura”  il titolo richiama il termine inglese Plainsong il cui significato è “canto piano”. Si tratta di una forma di canto, diffusa in epoca medievale, senza accompagnamento musicale, come il Canto Gregoriano. Plainsong, comunque, indica anche una melodia semplice e sobria, ma nel  romanzo richiama l’immagine della pianura, dello svolgimento lineare di vite comuni, ma emblematiche di come sia possibile aprirsi alla vita.

“Vogliamo sempre chi non possiamo avere”

Cercami di ANDRÉ ACIMAN

Diciamolo subito, è un romanzo che parla di amore. Di amori incontrati all’improvviso e inaspettatamente;  di amori lasciati andare, ma attesi per anni; di amori cercati e trovati, apparsi come eterni, ma fugaci; di amori che sono rimasti sospesi, ma che non potranno mai diventare realtà.

Samuel, un vecchio professore in pensione, una mattina sale su un treno a Firenze diretto a Roma per  tenere una conferenza e   trascorrere del tempo con il figlio Elio, giovane promettente musicista. Davanti a lui, si siede una giovane donna, Miranda, con il suo cane di compagnia che infastidisce Samuel il quale cerca rifugio nel libro che si è portato dietro, ma che non riuscirà a leggere perché lei comincerà a parlargli. Durante il viaggio l’anziano professore e la giovane donna si racconteranno dando così inizio ad una storia d’amore che diventerà compiuta ed adulta. Nonostante il “Tempo”, distanza impietosa che separa i due: Samuel è consapevole che Miranda ha più o meno l’età di suo figlio, ma la passione e l’amore che legherà i due non può essere frenata dall’età.

“Tempo” è il titolo della prima parte  del  romanzo dove la voce narrante è proprio Samuel il cui sguardo ci porta in giro per Roma e ci fa scoprire l’intensità della passione che in meno di dodici ore lo legherà a Miranda.

“Cadenza”, “Capriccio” e “Da capo” sono i titoli delle altre tre parti in cui si articola il romanzo che, di fatto, è  il sequel di “Chiamami col tuo nome” nel quale Andé Aciman raccontava l’amore tra due uomini, Elio e Oliver.

Elio, figlio di Samuel, oramai affermato pianista e Oliver, professore universitario a New York prossimo, padre di due figli al College, racconteranno le loro vite rispettivamente in “Cadenza” e “Capriccio” per poi ritrovarsi in “Da capo”, nuovamente estranei e incapaci di riportare indietro il tempo.

Perché il tempo è impietosamente traditore e non può ridare mai indietro quanto abbiamo lasciato andare e quando pensiamo di potere riacciuffare quello che non siamo riusciti a portare a compimento rischiamo di essere delusi.

Sarà così anche per Elio e Oliver o i due uomini avranno costruito qualcosa, loro malgrado e nonostante le loro scelte?

Scrive ad un certo punto  Aciman: “Il fatto è che la magia di una nuova conoscenza non dura mai abbastanza. Alla fine vogliamo sempre chi non possiamo avere. Sono quelli che abbiamo perso o che non hanno mai saputo della nostra esistenza a lasciare il segno. Gli altri ne sono solo una misera eco”.

Ma è veramente così? È questo il messaggio che vuole lasciarci l’autore? Personalmente (e invito i lettori ad avviare la discussione, se e quando lo riterranno opportuno) ritengo di no: anche perché la storia d’amore tra Samuel e Miranda chiude in maniera circolare il romanzo e lascerà un  segno concreto in un piccolo Oliver, frutto del loro amore.

Chi ha paura della verità?

La storia d’Italia  è fatta  di delitti irrisolti,   stragi di stato,   trame occulte tessute da inafferrabili tessitori  che pesano vergognosamente sulle vittime, sui loro familiari e sui cittadini tutti che avrebbero diritto a conoscere la verità.

 Tra queste pagine oscure vi è  quella della morte di Pier Paolo Pasolini, intellettuale scomodo dell’Italia del Novecento, che con coraggio puntava il dito contro una certa classe politica responsabile, più o meno diretta, di delitti rimasti senza mandanti, svolgendo così pienamente il ruolo di coscienza critica della società del suo tempo. Con questa chiave di lettura presento Pasolini ai miei alunni, cercando di mostrare loro il molteplice impegno dell’uomo che fu narratore, poeta, regista, giornalista e che, in quanto tale, deve essere conosciuto e non per il suo orientamento sessuale.

Sull’omicidio Pasolini indaga, nell’ultimo romanzo di Lugli, il giovane cronista di nera Marco Corvino (“come un piccolo corvo”, è costretto a precisare agli interlocutori che ne storpiano il cognome), praticante del quotidiano “Paese Sera”, finanziato dall’allora Partito Comunista che, come tanti altri, preferì liquidare il delitto Pasolini come un delitto di sesso, maturato negli ambienti omosessuali. Sebbene gli elementi emersi nel corso delle indagini dimostrassero che Pino Pelosi non aveva agito da solo, che non era stato lui a pestare a sangue Pasolini, né aveva guidato l’auto che ne aveva di fatto causato la morte, travolgendolo.

È legittimo, quindi, chiedersi le ragioni per cui siano stato ignorate  le prove emerse anche in sede dibattimentale e indicate nelle motivazioni della sentenza di primo grado del Tribunale per i minorenni di Roma, presieduto da Carlo Alberto Moro, fratello dello statista ucciso, e che costituiscono l’appendice al romanzo.

Sebbene concepito e sviluppato come un romanzo,  “Il giallo Pasolini” assume il valore di un’inchiesta giornalistica, pericolosa e inquietante, che un giovane praticante di nera (che indubbiamente molto ha in comune con Lugli) svolge di propria iniziativa, rischiando il licenziamento, ma anche la propria stessa vita. Indagando sul delitto, infatti, Marco Corvino si muoverà alla scoperta della Roma notturna degli anni Settanta, tra omosessuali, spacciatori,  criminali, scoprendo un mondo altro al tempo stesso minaccioso e conturbante, respingente e affascinante che rischia di travolgerlo.

Un’inchiesta giornalistica, dicevamo, ma ben contestualizzata storicamente attraverso l’incontro con  personaggi quali Nino Marazzita, avvocato di parte civile, e Oriana Fallaci, già giornalista di fama,  che in un’inchiesta sull’Europeo, indicando testimoni rimasti anonimi, escludeva che Pino Pelosi avesse agito da solo.

Nella ricostruzione storica di quegli anni, Lugli non trascura il racconto del conflitto tra gruppi di studenti neri e rossi, spesso trasformato in scontri armati, violenti e sanguinosi, nei quali il praticante di nera si lascia coinvolgere, espressione comunque di un’appartenenza politica e ideologica a cui  gli studenti delle generazioni successive abbiamo guardato con nostalgia, sentendoci esclusi dall’impegno civile, senza  però sapere costruire una valida alternativa.

Per chi ha amato, e continua ad amare, Pasolini è forte l’amarezza per un delitto rimasto senza mandanti e su cui lo Stato avrebbe il dovere morale di fare chiarezza. Perché, diceva Pasolini nel “Pianto della scavatrice”, “Solo l’amare, solo in conoscere conta. Non l’aver amato, non l’aver conosciuto”.