In Sardegna, anche in tempi più recenti,
viveva la “femina accabadora”, chiamata al capezzale dei malati
terminali per eseguire una sorta di eutanasia, certamente non legalizzata, ma
compresa e condivisa.
Da questa figura trae spunto il romanzo di Michela Murgia, scrittrice profonda
ed elegante (qualità non sempre scontate nella narrativa contemporanea), che ci
conduce nella cultura e nella tradizione sarda, alla scoperta di un mondo
oramai lontano, ma col quale, necessariamente, sarebbe opportuno confrontarsi.
Un mondo in cui vivere significava soprattutto sopravvivere, dove una madre
poteva rinunciare alla propria figlia (bocca da sfamare nella miseria)
affidandola ad una donna sterile.
Da questa consuetudine prende avvio il romanzo della Murgia: Maria viene ceduta
dalla madre a Tzia Bonaria. La bambina diventa così la filia de anima di una
sarta la cui vita, apparentemente comune e noiosa, nasconde un segreto profondo
dal quale Maria cercherà, inutilmente, di fuggire perché, a volte nella vita,
anche l’impensabile può diventare realtà.