Una donna umiliata, picchiata, massacrata dalle mani dell’uomo che avrebbe dovuto amarla e proteggerla. Una donna ferita profondamente nel corpo e nell’animo.
Una donna capace di rialzarsi e riscattarsi, apparentemente dura e anaffettiva, ma che si rivela un’amica fedele, capace di riconoscere il dolore altrui e curarlo.
Tutto questo, e altro ancora, è il commissario Teresa Battaglia creato da Ilaria Tuti e ancora una volta protagonista di un giallo “storico”, come mi piace definire la narrativa investigativa della scrittrice friulana.
La vicenda che vede protagonista il commissario Battaglia si svolge su diversi piani temporali: il presente (con il ritorno in scena di un omicida seriale, vecchia conoscenza della Battaglia a cui è legato da un rapporto apparentemente ambiguo, ma che, nel corso della lettura, impareremo a conoscere) il passato (ventisei anni prima, quando la Battaglia era ancora una giovane ispettrice, oggetto di pregiudizi da parte dei colleghi e alle prese con un marito egoista e violento). A questi livelli temporali bisogna aggiungerne un terzo che ci conduce nella città di Aquilea del IV secolo dopo Cristo, agli albori del Cristianesimo quando cominciava a scomparire il culto isiaco dove la vicenda di “Figlia della cenere” affonda le proprie radici.
In quest’ultimo romanzo, Teresa Battaglia si mostra con tutta la propria debolezza e fragilità, desiderosa di farsi da parte, di congedarsi dai suoi ragazzi, dalla squadra che ha costruito, per abbandonarsi al male che le sta divorando la mente e contro il quale potrà soltanto difendersi, ma mai vincerlo. Non ci riuscirà, perché costretta dagli eventi che la costringeranno a indagare, facendo i conti con il proprio passato, un passato dolorosamente straziante, in parte condiviso da altre donne.
La narrazione supera i confini dell’indagine investigativa e si apre ad una riflessione sulla capacità delle donne di liberarsi da rapporti tossici che rischiano di ucciderle, sulla capacità delle donne di rinascere
“e non dalla costola di un uomo
che si credeva fatto a immagine e somiglianza di un dio,
ma dalle proprie, incrinate, doloranti, spezzate”.
Nell’ultimo anno, segnato dalla ben nota pandemia, ci si è chiesti se, quando tutto sarà finito, ci ritroveremo migliori di quelli che eravamo prima del gennaio 2020, allorché anche in Italia si prendeva atto che quella provocata dal Covid 19 non sarebbe stata una semplice influenza e che il contagio non interessava solamente la Cina. Le risposte più ottimistiche hanno lasciato intravedere la possibilità di un mondo migliore, fondato sul rispetto nei confronti dell’ambiente che ci ospita e dei nostri simili. Molto presto, però, abbiamo dovuto osservare che, ancora una volta, la speranza di diventare migliori non è facilmente realizzabile. Essa appare, piuttosto, come un’utopia. Dunque, per definizione, è irrealizzabile. Non si tratta, siatene sicuri, di una lettura disfattista e pessimista, quanto, piuttosto, della facile considerazione di chi osserva dalle cronache quanto sta accadendo nel mondo, anche in questo preciso momento; di chi si sofferma a osservare l’animo umano, a scavare a fondo per comprendere le ragioni di fatti, anche lontani tra loro, ma tutti con un’unica ragione comune: il male che gli uomini portano con sé e che lasciano dilagare.
È quanto fa Loredana Lipperini (narratrice che si muove tra gotico e fiction, tra magia e profezia) che ci conduce in un paese immaginario delle Marche, Vallescura, che potrebbe avere, in potenza, gli elementi per assurgere a locus amenus, se non fosse abitato da donne (gli uomini nel romanzo sono poco significativi, figure marginali e irrilevanti) che portano dentro di sé il male, da cui, poi, far scaturire la peste, capace di sterminare tutti gli abitanti del paese.
La narrazione, che procede per livelli temporali diversi, ruota intorno ad alcune figure femminili di cui, certamente, quella più inquietante è Saretta, donna disperatamente incompiuta, vittima di se stessa, bulimica fin dalla fanciullezza, incapace di controllare il rapporto con il cibo che l’ha resa brutta e sgraziata, ma che –probabilmente per compensare – si è ricavata (apprendiamo anche con la violenza, non solo psicologica) il ruolo di despota di un’intera comunità, pronta a eseguire i suoi ordini, anche quando lasciati passare come semplici considerazioni:
“Tutti vanno da Saretta quando c’è un problema,
tutte, soprattutto, fra donne si trova la soluzione più in fretta,
gli uomini sono lenti a capire, si fissano su particolari
di nessuna importanza”.
Lei, dunque, non è sola nel suo ruolo di custode, ha saputo conquistare la complicità di altre donne, esecutrici passive della sua volontà: “Ma questa sera Saretta, Annalisa, Maddalena e Fiorella sono di guardia. Il paese appartiene a loro: sanno, controllano, decidono, dispensano consigli sedute sulle sedie di paglia o di tela dipinta a bolli rossi e arancioni”.
Quella di cui si parla nel passo citato non è una sera come tutte le altre (una tranquilla sera d’estate che le donne del sud della mia infanzia trascorrevano sedute sull’uscio per sfuggire al caldo con qualche chiacchiera): sanno, infatti, che “una catastrofe sta arrivando, e che li scaccerà”. Lo sa soprattutto lei, Saretta, che ha da tempo individuato il nemico da eliminare per salvare il paese dalla fine imminente: si tratta di Maria, un’altra donna. La donna venuta da fuori, indesiderata e guardata con sospetto fin dal primo giorno, isolata per volontà di Saretta in attesa che venga allontanata (anche con la violenza, se è il caso) perché considerata pericolosa per il bene dell’intera comunità:
“Noi siamo uniti, pensava Saretta con ferocia, e lo siamo
perché nessuno viene a mettere in discussione il nostro mondo.
Ma perché questo mondo continui dobbiamo contarci,
dobbiamo essere solo noi”.
Poi c’è Chiara, un’altra straniera, ma conosciuta e tollerata perché è la nuora di un’anziana del paese, che non si è lasciata assorbire dal cerchiomagico: “Chiara è un’anima buona, oltre che una sognatrice. Scrive, beve tè bianco, va alle mostre, nutre i gatti e legge molto”. Ha raggiunto Vallescura per aiutare la suocera Aurelia (la ritiene tale benché da anni abbia divorziato dal marito) che ha avvertito in pericolo grazie a un sogno, nel quale era chiamata a seppellire i morti di peste. Chiara vorrebbe portare via Aurelia, prima che il male si diffonda, ma la ferma la consapevolezza che “si può sconfiggere solo quando si è insieme. La natura è più forte degli uomini. Gli uomini possono sperare di batterla, momentaneamente, solo unendosi”.
Infine, c’è una giovane donna, poco più che fanciulla, che ha sfidato pubblicamente Saretta di cui adesso rischia la vendetta. Sarà accolta da Aurelia e Chiara. A Carmen, questo possiamo dirlo senza rivelare nulla, avrà il compito di trasmettere la memoria della peste e la consapevolezza che il male è sempre in agguato, soprattutto nei momenti di debolezza, quando si è più vulnerabili. Un compito quasi titanico nella consapevolezza che gli uomini non cambiano, sono sempre gli stessi, anche di fronte alla peste. Oggi, come nel Medio Evo o nel Seicento, durante le due pestilenze raccontate dalla storia e dalla letteratura.
Lo sguardo di Loredana Lipperini, infatti, si volge lontano nel tempo, per costruire un racconto che si legge d’un fiato (direi quasi che “si fa leggere”) coinvolge il lettore, lo costringe a guardare dentro il proprio animo e intorno a sé con sguardo acuto e mente libera dai pregiudizi.
Affermarsi come persona, “come un uomo”, anche senza passare dall’altare; senza lasciarsi condizionare dalle compagne di scuola che vedevano nel matrimonio il traguardo ultimo; ignorando le scelte delle colleghe di Università che studiavano per pura formalità, per snobismo sociale, ma la cui aspirazione era una casa alto borghese e un marito in carriera per godere di luce riflessa: un sogno, per la protagonista de “La donna gelata”, destinato a infrangersi.
Pubblicato nel 1981, ma appena tradotto in Italia, “La donna gelata”, è l’ultimo romanzo di una trilogia autobiografica con il quale Annie Ernaux (classe 1940) completa la narrazione di un percorso esistenziale, dolorosamente vero, vissuto da molte donne del secolo scorso, donne alle quali la società, la famiglia d’origine, un marito egoista e ottuso, hanno tarpato le ali, impedendo loro di affermarsi come persone, di non finire prigioniere di una gabbia, non sempre dorata, in cui la loro esistenza si esauriva nell’essere mogli e madri, nei complimenti ricevuti per la casa, linda e ordinata, per le abilità culinarie, senza mai potere liberamente esprimere se stesse, senza potere progettare il proprio futuro. Anche perché per loro il futuro non esisteva, congelato in una quotidianità sempre uguale a se stessa, nella quale stare in penombra, mettendo al primo posto bisogni di marito e figli.
Un unico capitolo, un racconto in prima persona, dove la voce narrante, quella dell’autrice, ricostruisce l’infanzia della protagonista iniziando dal paesaggio dell’infanzia, nella Normandia del secondo dopo guerra. Figlia unica di una famiglia modesta i cui genitori gestivano un bar drogheria, un microcosmo di uomini e donne grazie al quale ha potuto maturare la consapevolezza di vivere in una famiglia diversa dalle tante di cui sentiva raccontare. Una famiglia dominata da una madre particolarmente forte, capace di lasciarsi andare a scatti di ira violenti, attenta amministratrice delle attività commerciali, una madre che “è la forza e la tempesta, ma anche la bellezza, la curiosità per il mondo, l’apripista sulla strada verso il futuro, che mi dice di non aver mai paura di niente e di nessuno”. Una famiglia in cui la figura paterna non coincideva con quella, al tempo diffusissima, di una padre-padrone, servito e riverito, despota domestico, eroe di guerra la cui parola era legge, violento e irascibile. Un padre, quello della protagonista, che la mattina, mentre gli altri papà erano al lavoro, rimaneva a casa impegnato nei lavori domestici, che giocava con la figlia bambina, che raccontava storie e barzellette divertenti, “una presenza costante, serena e affidabile”.
In questa famiglia (che dal confronto con le compagne di scuola comincerà a considerare anomala, quasi vergognosa) ha preso vita il sogno di potere scegliere della propria vita, liberamente, progettandola come un uomo, immaginando una affermazione professionale, una carriera resa possibile dallo studio rigoroso, nella “convinzione che quasi tutti i guai delle donne siano causati dagli uomini”. Un sogno che sembrava diventare realtà: il trasferimento in città per gli studi universitari, la possibilità di lavorare per non pesare sulla famiglia ed essere indipendente, al punto da potere viaggiare liberamente, anche all’estero (la Ernaux racconta, tra l’altro di un viaggio in Italia). Tutto lascerebbe pensare alla possibilità di un riscatto culturale, di un progetto che potrebbe diventare realtà.
Potrebbe.
Fino a quando la giovane donna libera ed emancipata non è costretta a fare i conti con i modelli che da più parti le vengono indicati, facendola sentire imperfetta e incompiuta. Fino a quando non si innamorerà di un giovane uomo, con il quale condividere la passione per lo studio da cui fare scaturire scelte professionali, possibili per entrambi, immaginando una famiglia diversa in cui essere complementari con uguali diritti e uguali doveri.
Potrebbe, dunque, ma non accadrà.
Forse perché i tempi non erano maturi. Forse perché negli anni Sessanta del secolo scorso non tutti gli uomini erano riusciti a liberarsi da un ruolo legato al sesso, oltre il quale c’era l’ignominia, la vergogna, l’anormalità.
I tempi non erano maturi non solo per gli uomini, ma anche per le donne. Per la protagonista stessa che ad un certo punto scrive:
“mi capitava di pensare
che con un uomo al mio fianco
tutte le mie azioni,
anche le più insignificanti,
caricare la sveglia, preparare la colazione,
avrebbero acquisito sostanza e sapore”.
Il romanzo si colora così delle tinte cupe dell’oppressione, della mancanza di speranza che hanno segnato la storia di tante donne, raccontate,spesso, con dolorosa rassegnazione, ma anche lasciando intravedere la possibilità di un riscatto, di un’alterità, che non può non passare dalla costruzione di sé. Penso ad “Una donna” di Sibilla Aleramo, ma anche a “Dalla parte di lei” di Alba de Céspedes la cui lettura consiglio spesso alle mie studentesse, nella speranza che comprendono il privilegio loro dato e non lo sciupino.
Crosby è l’insignificante cittadina del Maine, Stato sull’Oceano Atlantico, che grazie alla narrazione di Elizabeth Strout (premio Pulitzer nel 2009 ) diviene caleidoscopio di un’umanità provata dalla quotidianità, a tratti drammatica, del vivere.
Al centro c’è Olive Kitteridge che nonostante la sua presenza sia talora limitata ad un’ immagine evocata dalla memoria di qualche personaggio, può essere considerata la protagonista di quello che, pur presentandosi come una raccolta di racconti, è di fatto un romanzo corale, con numerosi protagonisti. Tra tutti emerge dando unitarietà alla narrazione Olive Kitteridge, donna apparentemente impossibile, nervosa e scostante, insegnante di matematica temuta dagli alunni i quali, anche quando la incontreranno (o semplicemente la ricorderanno) da adulti avranno ben presente la paura che incuteva tra i giovani studenti della settima classe (più o meno la seconda media italiana).
Olive Kitteridge è inizialmente la moglie vista attraverso lo sguardo del marito, Henri, affettuoso e gentile, amato da tutti, aggredito verbalmente dalla propria compagna che riversa su di lui tensioni, frustrazioni e nervosismi dopo una giornata di lavoro. È la madre energica, apparentemente poco amorevole (già anziana racconterà che era solita picchiare il figlio), la suocera incattivita dall’arroganza della nuora alla quale, il giorno delle nozze, (dopo avere macchiato con un pennarello un maglione) porta via un reggiseno ed una scarpa che poi abbandonerà nel contenitore della spazzatura di un bar.
Tuttavia, chi seguendo il mio consiglio procederà nella lettura scoprirà anche tanti aspetti di Olive, una molteplicità di sfumature e sentimenti che la rendono realisticamente donna, con le sue contraddizioni e paure, capace di amare e di odiare, pronta a sottrarsi, ma anche ad offrirsi con generosità. Provata dalla vita, delusa negli affetti, riconoscente nei confronti dell’amore incondizionato del marito Henri, Olive Kitteridge a settantacinque anni scoprirà “che l’amore non va respinto con noncuranza, come un pasticcino posato assieme ad altri su un piatto passato in giro per l’ennesima volta. No, se l’amore era disponibile, lo si sceglieva, o non lo si sceglieva”.
Ed è così che Olive Kitteridge si erge a maestra di vita, ricordando a sé stessa, ma anche a al singolo lettore
“quello che tutti dovrebbero sapere:
che sprechiamo inconsciamente un giorno dopo l’altro”.
Non inganni il lettore la semplicità (soltanto apparente) dello sviluppo narrativo (la storia di una nonna che segue, sfidando la distanza oceanica, i primi tre anni di vita della propria nipotina).
“Tempo con bambina”, infatti, affronta temi profondi dell’esistenza: il primo, fondamentale, è che l’essere genitori, nonni, zii, non è la conseguenza di un fatto biologico. Si può essere genitori anche accogliendo dal mondo i figli, invece di donarli al mondo. Come ha fatto Lidia Ravera, dopo la morte della sorella Mara che, gravemente ammalata, le ha affidato Maddalena, la figlia non ancora adolescente.
Grazie a questa maternità, oggi Lidia Ravera è nonna di Mara (Mara piccola) – per distinguerla dalla sorella (Mara Grande) – la bambina cui la narratrice è riuscita a dedicare parte del proprio tempo, sfidando quelli che nel libro definisce “pensieri da vecchia” (la difficoltà di raggiungere gli Stati Uniti sobbarcandosi lunghe ore di volo, ad esempio) nella ferma convinzione che la comunicazione a distanza, possibile grazie a Skype o Face Time, non possa sostituire la presenza fisica il cui valore non è equiparabile.
È questo un altro tema fondamentale del libro, tema legato al nostro tempo che a molti (fortunatamente non a tutti) regala l’illusione che la comunicazione in tempo reale, superando le distanze, possa sostituirsi al rapporto fisico:
“Non costa niente.
Non costa, ma quanto vale?
Vale quanto la presenza?”
Il libro, comunque, ruota intorno all’essere nonna, soprattutto per una donna (qual è l’autrice) con un passato da femminista e che, in quanto tale, aveva escluso la possibilità della maternità, comunque abbracciata con consapevolezza e amore all’arrivo del proprio figlio naturale. Un ruolo, quello della nonna, che non impone una funzione educativa rigorosa e severa, essendo questa riservata ai genitori, e che, conseguentemente, permettere di agire in maniera accattivante, mostrando soltanto la parte più piacevole di sé.
Che nonna è Lidia Ravera? Certamente, una nonna diversa da quelle del passato, chiamate a sostituire i genitori impegnati nel lavoro, che definisce madri “dal ventre appassito e dall’illimitata generosità affettiva”. Delle nonne di oggi scrive:
“Siamo nonne entusiaste, ma siamo sempre noi.
Quelle che non volevano essere madri e basta.
Quelle che non vogliono essere nonne e basta.
Noi. Una generazione di inquiete, invecchiate sì, riconciliate mai”.
Nonne tra i sessanta e i settanta, ma che continuano ad avere una vita professionale, nel caso della Ravera ricca di impegni. Nonne che non riempiono vuoti, ma sanno condividere le prime esperienze di vita dei nipoti, sebbene per pochi mesi all’anno.
“Tempo con bambina” si presenta come un lungo racconto a Mara Grande per renderla partecipe dei primi anni di vita della nipotina, ma anche per condividere le trasformazioni di un Paese che la morte prematura non le ha permesso di conoscere. Un Paese che dal ’93 (anno in cui è mancata la sorella dell’autrice) non è migliorato:
“perché l’Italia è diventata un paese piuttosto estivo.
Dal clima mite e dalle molte bellezze.
Un paese lento, festivo, divagante.
Infatti sono ducentocinquantamila all’anno i giovani intraprendenti
che se ne vanno all’estero,
per non rischiare una eterna coatta vacanza”.
Tra i giovani che hanno lasciato l’Italia per affermarsi all’estero c’è anche Maddalena la nipote/figlia di Lidia Ravera che ha raccontato la genesi del libro ai lettori ragusani (numerosi e attenti) durante gli incontri di “A tutto volume”.
È
possibile ancora oggi scrivere romanzi per mezzo dei quali restituire, con un
misto di storia ed invenzione, la memoria profonda di eventi e personaggi fino
a qualche tempo fa esclusi dalla storiografia ufficiale?
Alla
risposta, senz’altro positiva,
contribuisce l’ultimo romanzo di Ilaria Tuti che con “Fiore di roccia”
si allontana dalla narrativa investigativa con cui l’ho conosciuta (“Fiori
sopra l’inferno” e “Ninfa dormiente” sono i due romanzi che mi hanno permesso
di apprezzarne le doti narrative e di
cui consiglio caldamente la lettura) consegnando al suo pubblico un romanzo
storico che si legge con passione, con il quale ti conduce sulle montagne
friulane, tra le trincee della Prima Guerra Mondiale, conosciuta attraverso lo sguardo compassionevole e il sacrifico di tante donne che per anni sono
state dimenticate dalla Grande Storia, ma che con la
propria abnegazione e forza di volontà quella
Storia hanno contribuito a scriverla.
Si tratta delle portatrici carniche che, sfidando i cecchini, trascurando lo sfinimento, dimenticando la fame, non ascoltando la sofferenza fisica, si arrampicavano sui monti portando sulle loro spalle, provate dalla fatica e dalle privazioni, gerle pesantissime con munizioni, medicine, cibo per i giovani soldati schierati nelle trincee, vittime predestinate di una guerra assurda che riduce gli uomini alla barbarie e ne cancella l’umanità:
“Io
mangio radici, questi uomini escono da antri bui
per
predare altri uomini alla luce di torce.
Sembra
che il conflitto abbia riavvolto le ere,
riportando
in superficie usi primordiali”.
È la riflessione di Agata, io narrante del romanzo, personaggio indubbiamente inventato, ma ispirato alle tante donne che durante il primo conflitto mondiale non si sono tirate indietro, consapevoli del triste retaggio imposto loro: sacrificarsi per essere apprezzate in un mondo gestito dagli uomini per gli uomini, ma costruito sulla costante fatica delle donne.
Sono
le donne a farsi carico del pesante fardello che la guerra ha caricato sulle
loro spalle, imponendo loro di sostituire gli uomini nei campi, di accudire gli
anziani malati, di difendersi dalle aggressioni fisiche di uomini senza
scrupoli. La fatica, però, non priva le donne dalla capacità, tutta muliebre,
di prendersi cura degli altri, nello caso specifico dei giovani soldati di cui
si sentono madri, sorelle, fidanzate, pronte a venire loro incontro, dimentiche
della propria sofferenza.
Il romanzo è nato dal desiderio dell’autrice di ricostruire quella che nella nota conclusiva definisce “un’impresa epica che ha partecipato in modo sostanziale al corso della storia”. Nella ferma convinzione che “le portatrici carniche sono nel cuore dei friulani”.
Per quanto mi riguarda, dopo la lettura di “Fiore di roccia” queste donne coraggiose sono anche nel mio cuore e, sono sicura, occuperanno un posto anche in quello dei lettori.
Sotto lo sguardo indifferente dell’Etna (a muntagna) il vicequestore Vanina Guarrasi indaga su un omicidio che assume i colori di un giallo internazionale.
Tutto
ha inizio un mattino d’inverno, sorprendentemente freddo per una milanese che,
atterrata a Catania per lavoro, si imbatte in un’auto
parcheggiata male e sulla quale scopre il
cadavere di un uomo. Lella Cantone, portatrice sana di luoghi comuni e
pregiudizi sulla Sicilia e sui siciliani, non ha dubbi che si tratti di un
delitto mafioso, ma dovrà fare i conti con il vicequestore Guarrasi, rientrata
da Palermo e pronta a tuffarsi in un’indagine che riserverà non poche sorprese.
Seguendo
uno schema già collaudato nei due precedenti polizieschi, il vicequestore si
muoverà con la determinazione e la spregiudicatezza che la caratterizzano,
dibattendosi tra Catania, Taormina (dove il ritrovamento del cadavere di una
donna svelerà risvolti interessanti) rapporti d’amicizia e d’amore, con la
collaborazione del vecchio commissionario Patanè, da anni in pensione, ma partner
ad honorem di Vanina che suscita l’irosa gelosia della moglie.
Poiché
si tratta di un poliziesco, non dirò più nulla sulla trama che è sacrosanto diritto del lettore scoprire da
una pagina all’altra. Sappiate però, almeno quanti non vi siete ancora
imbattuti nei romanzi di Cristina Cassar Scalia, che anche “La logica della
lampara” si distingue per i numerosi personaggi cui l’autrice ha dato vita con
grande abilità, molti divenuti familiari, in quanto presenze costanti già nei due precedenti polizieschi: “La
logica della lampara” e “Sabbia nera”. Tra tutti, naturalmente, emerge Vanina
Guarrasi donna dalle straordinarie doti investigative, amante della cucina
(nonostante i chili che si accumulano con l’età) appassionata cinefila, amica
sincera e generosa, mai in competizione con le altre donne (molte bellissime)
che la circondano. Una donna dalla vita tormentata, segnata da un dolore con
cui continua a fare i conti e che non la rende libera di amare, causa di paure
e angosce che la tormentano, che la spingono lontano da Palermo (sua città
natale dove tutto è cominciato) ma, allo stesso tempo, ve la attraggono.
“Odi et amo”, come avrebbe detto Catullo, “odio
e amo … e mi sento messo in croce”.
Anche Vanina Guarrasi porta la propria croce, senza lamentarsene, con la determinazione e la forza che solo una
donna (e in particolare, viste le circostanze, una donna siciliana) può avere.