Matteo Cavezzali, Nero d’Inverno
“Quello che si racconta nei libri può anche accadere davvero, ma quello che è accaduto veramente non può essere scritto in nessun libro”: è la postilla con la quale Cavezzali chiude il proprio romanzo con l’intento, pensiamo, di dissuadere il lettore dalla convinzione di avere aggiunto dei tasselli di verità a fatti apparentemente lontani dal nostro tempo, ma che tuttavia molto ci dicono su questi anni e sul mondo in cui viviamo.
Tutto ha inizio nel secolo scorso, in un’America meta di migranti, molti provenienti dall’Italia, inseguendo il sogno di una vita migliore possibile a chiunque, ma non a tutti. Tra gli italiani giunti in America, dopo mesi di navigazione ammassati su una nave in condizioni estreme (che senza dubbio riportano a quelle che vivono i migranti che dal nord Africa cercano di raggiungere le nostre coste) c’è Mario Buda (che in America diventerà Mike Boda) il quale si ritrova a lavorare in una fabbrica di cappelli. Qui Buda farà esperienza dello sfruttamento della classe operaia da parte del Capitalismo per il quale il lavoro non potrà essere fermato neanche davanti alla morte di un uomo. Un tema antico e sempre attuale, ma che nell’America del primo Novecento porterà alla nascita dei primi gruppi anarchici e dei primi attentati terroristici.
A questi è legato il nome di Mario Buda, al punto che ancora oggi negli Stati Uniti l’espressione Boda’s bomb è diventata quasi gergale per indicare una tipologia di attentati (quelli con le autobombe utilizzate, ahinoi, ancora oggi dall’Isis). La ricerca di Matteo Cavezzali – da cui il romanzo trae spunto – nasce proprio dalla lettura di un saggio americano sul terrorismo moderno di cui Buda viene considerato l’iniziatore.
Il risultato dell’inchiesta giornalistica di Matteo Cavezzali è un romanzo storico dove accanto a personaggi realmente esistiti (come Sacco e Vanzetti, Galleani) si affollano personaggi creati dalla fantasia dell’autore il quale dà loro voce. Il risultato è una sorta di Spoon River dove tante voci narrano di sé e dei protagonisti, regalandoci un racconto corale intenso e profondo. Cavezzali dà prova di come il giornalismo d’inchiesta possa condurre ad una creazione artistica in cui “storia ed invenzione” contribuiscono alla nostra conoscenza del passato, ma senza fare luce sulla verità profonda degli eventi narrati.
Molti, infatti, gli interrogativi a cui – necessariamente – Cavezzali non ha potuto rispondere (non toccava certamente a lui), sulle ragioni per cui Buda abbia potuto – dopo l’attentato di cui è stato ritenuto l’autore – tornare in Italia e vivere tranquillamente una vita normale, di marito e padre. Una normalità quasi “regalata” che, ci dice Cavezzali, sembra anomala nell’Italia del secondo dopoguerra dove gli americani erano significativamente presenti.
Un dubbio, quindi, s’insinua nella mente del lettore: chi ha voluto l’attentato? Gli anarchici o altri? Chi può dire che non sia stato un elemento di distrazione in un’America messa in crisi dalle bombe che ne minacciavano la sicurezza dopo la morte di Sacco e Vanzetti, la cui esecuzione fu voluta contro ogni ragione e prova di innocenza?