Una donna sulle bianche scogliere, sta tornando in Inghilterra dall’Italia per sfuggire ad un amore sbagliato, in attesa di imbarcarsi decide di scrivere una lettera alla sorella. Non usa della normale carta da lettera, ma un elegante quaderno, acquistato a Venezia, con la copertina rigida di seta azzurra marmorizzata. Niente di sorprendente, considerato che la lettera non potrà mai essere spedita, visto che la sorella è scomparsa venticinque anni prima.
Si apre così il romanzo di Coe che chiude la trilogia (i due precedenti sono “La famiglia Winshaw” e “Il circolo dei Brocchi” ) che, secondo alcuni commentatori, costituisce il Romanzo ideale dell’autore inglese campione della leggerezza della narrazione.
Una leggerezza, permettetemi l’ossimoro, profonda, capace di scavare dentro l’animo umano evidenziandone i limiti e le potenzialità, facendo luce sulle incompiute che ciascuno, non solo i personaggi di Coe ,si porta dietro perché manchevole del coraggio e della volontà di prendere in mano la propria vita e smettere di crogiolarsi in sogni adolescenziali, per vivere il presente ed essere artefici del proprio futuro.
Benjamin, promessa mancata della letteratura inglese, è il personaggio che meglio racconta questa dimensione esistenziale che lo rende un imbranato perdente, ma che, il lettore potrà scoprirlo da sé, potrebbe anche riscattarsi.
La vicenda prende le mosse alla vigilia del nuovo Millennio e si snoda durante il governo Blaire, nell’imminenza della Guerra contro l’Iraq che vide l’Inghilterra in prima fila e mise in crisi le coscienze di molti, spingendo qualcuno a scelte radicali, tanto da rivoluzionare la propria vita a conferma, se mai ve ne fosse bisogno, che pubblico e privato si intrecciano, sebbene in qualche caso, come apprenderemo verso la fine della narrazione, la consapevolezza si acquista dopo tanto tempo.
Colpisce il lettore la tragica attualità del racconto di Coe che, a tratti, sembra diventare lo specchio del nostro quotidiano con le teorie complottiste di cui, ahinoi, quotidianamente leggiamo; con i rigurgiti neo-nazisti delle cronache odierne; con l’insofferenza, spesso sfociata nella violenza, nei confronti degli stranieri, dei diversi…
Eppure, c’è ancora spazio per la speranza che nel romanzo è incarnata da due giovani personaggi: Patrick e Sophie, visti mentre passano “sotto il grande arco della porta di Brandeburgo, mano nella mano; senza desiderare altro dalla vita, per il momento, che la possibilità di ripetere gli errori che avevano commesso i loro genitori, in un mondo che stava ancora cercando di decidere se concedere loro almeno questo lusso”.
Antropocene: è il termine con cui Paul Crutzen, premio Nobel per la Chimica atmosferica, ha indicato l’epoca geologica che stiamo vivendo. Epoca caratterizzata dall’agire dell’uomo il quale, come spesso sentiamo ripetere, sembra destinato all’estinzione, immancabile e (ahinoi!) improcrastinabile risultato di scelte sconsiderate che hanno compromesso il futuro del pianeta. Gli scienziati continuano, senza posa, a indicare i rischiosi cambiamenti causa di incendi, siccità, scarsità di cibo …, ma le minacce, evidenti e sempre più concrete, sembrano non convincere i Potenti né sembrano sortire scelte strategiche fondamentali per la sopravvivenza della Terra e dei suoi abitanti.
Quanti (vedi Greta Thunberg) si sono fatti carico del compito di promuovere comportamenti virtuosi per la salvezza della Terra diventano in qualche caso oggetto di sprezzante dileggio da parte di chi (vedi l’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump) dovrebbe avere una visione ampia ed a lungo termine delle scelte da operare per il ruolo ricoperto. Secondo un copione già scritto e che Carla Benedetti fa risalire a Noè, scelto da Dio per costruire l’Arca con cui salvarsi, unico giusto in un mondo di ingiusti, dall’imminente diluvio.
Il contributo che l’autrice dà va oltre il riferimento biblico: attraverso l’analisi di dati e di testi divulgativi scientifici, oltre che letterari, Carla Benedetti sostiene che le parole (pur fondate) degli uomini di scienza sono destinate a rimanere inascoltate perché incapaci di creare empatia, di coinvolgere sentimentalmente gli uomini. Contrariamente a quanto potrebbero fare la filosofia e la letteratura. Insomma, secondo Carla Benedetti, la Terra e i suoi abitanti non saranno salvati dalla Scienza, non solo almeno. Ci salveremo se uomini e donne di Lettere sapranno farsi carico del messaggio che viene dalla scienza e renderlo visibile e comprensibile a tutti.
Si potrebbe certo obiettare che tanta produzione letteraria di denuncia (vedi quella sugli orrori nazisti) non è riuscita a liberarci dai rischi (oggi ancora attuali) di certi fenomeni. Tuttavia, non possono essere ignorate alcune teorie di studiosi che esaltano il ruolo di quella produzione letteraria capace di “potenziare il sentimento empatico”. Tra gli altri, la filosofa statunitense Martha Nussbaum la quale definisce l’immaginazione narrativa come “immaginazione compassionevole”, capace di educare all’etica altruistica. Perché: “Non puoi risolvere un problema con lo stesso tipo di pensiero che hai usato per crearlo”, come ricorda l’autrice nell’esergo (attribuito a Albert Einstein) che precede la trattazione.
Sylvie e Andrée sono ancora due scolarette quando si incontrano tra i banchi di scuola e stringono amicizia. In particolare, Sylvie sarà come folgorata dalla piccola Andrée verso la quale proverà un profondo sentimento a cui non sa, né può, dare nome, un sentimento che va ben oltre l’amicizia.
Il rapporto si concluderà tragicamente: Andréè morirà giovanissima per quella che la scienza individuerà come una encefalite virale. Per Sylvie, invece, a causare la morte della sua amica del cuore sono state le costrizioni, imposte dalla famiglia, che le hanno impedito di essere una giovane donna, libera di essere se stessa, di costruire la propria esistenza, inseguire i propri sogni e realizzare il proprio sentire.
Nelle pagine di quello che possiamo definire un racconto breve autobiografico, Simone de Beauvoir ricostruisce il suo rapporto con Elisabeth Lacoin, chiamata Zaza (Andrée nel testo) conosciuta alla scuola cattolica Adeline Desir.
Zaza era una bambina apparentemente libera, sfrontata con l’insegnante, indipendente.
Solo apparentemente, però. In quanto, la famiglia, della borghesia cattolica militante, la limita e la condiziona con freddo e distaccato rigore , concretizzato nelle regole imposte dalla madre, figura che al lettore appare persino malevola.
“Avevo invidiato spesso l’indipendenza di Andrée;
a un tratto mi sembrò molto meno libera di me.
C’era tutto un passato dietro di lei;
e intorno a lei quella grande casa, quella famiglia numerosa:
una prigione dalle vie d’uscita accuratamente sorvegliate”.
Nel contesto familiare di Andrée/Zaza, Sylvie/Simone appare come una minaccia. Lei che durante la fanciullezza appariva poco libera, comincia a vivere in maniera indipendente scegliendo i propri studi senza limitazioni e manifestando la propria autonomia, mentre Zaza è incastrata tra i più disparati doveri sociali che le impediscono di vedere la sua amica, di gestire il proprio tempo ed organizzare la propria esistenza, di studiare il violino, di scegliere le proprie letture, di ritrovarsi sola.
Il racconto supera i limiti dell’esperienza autobiografia aprendosi ad una riflessione profonda sulla condizione di molte donne (ieri, ma forse anche oggi. Per alcune donne almeno e in alcuni ambienti certamente) costrette a soffocare ogni slancio vitale, a mortificare la propria individualità perché sommerse da tradizioni alienanti, da forme, più o meno scelte, che le mortificano.
Una donna umiliata, picchiata, massacrata dalle mani dell’uomo che avrebbe dovuto amarla e proteggerla. Una donna ferita profondamente nel corpo e nell’animo.
Una donna capace di rialzarsi e riscattarsi, apparentemente dura e anaffettiva, ma che si rivela un’amica fedele, capace di riconoscere il dolore altrui e curarlo.
Tutto questo, e altro ancora, è il commissario Teresa Battaglia creato da Ilaria Tuti e ancora una volta protagonista di un giallo “storico”, come mi piace definire la narrativa investigativa della scrittrice friulana.
La vicenda che vede protagonista il commissario Battaglia si svolge su diversi piani temporali: il presente (con il ritorno in scena di un omicida seriale, vecchia conoscenza della Battaglia a cui è legato da un rapporto apparentemente ambiguo, ma che, nel corso della lettura, impareremo a conoscere) il passato (ventisei anni prima, quando la Battaglia era ancora una giovane ispettrice, oggetto di pregiudizi da parte dei colleghi e alle prese con un marito egoista e violento). A questi livelli temporali bisogna aggiungerne un terzo che ci conduce nella città di Aquilea del IV secolo dopo Cristo, agli albori del Cristianesimo quando cominciava a scomparire il culto isiaco dove la vicenda di “Figlia della cenere” affonda le proprie radici.
In quest’ultimo romanzo, Teresa Battaglia si mostra con tutta la propria debolezza e fragilità, desiderosa di farsi da parte, di congedarsi dai suoi ragazzi, dalla squadra che ha costruito, per abbandonarsi al male che le sta divorando la mente e contro il quale potrà soltanto difendersi, ma mai vincerlo. Non ci riuscirà, perché costretta dagli eventi che la costringeranno a indagare, facendo i conti con il proprio passato, un passato dolorosamente straziante, in parte condiviso da altre donne.
La narrazione supera i confini dell’indagine investigativa e si apre ad una riflessione sulla capacità delle donne di liberarsi da rapporti tossici che rischiano di ucciderle, sulla capacità delle donne di rinascere
“e non dalla costola di un uomo
che si credeva fatto a immagine e somiglianza di un dio,
ma dalle proprie, incrinate, doloranti, spezzate”.
Ci sono uomini che hanno dato il loro nome ad intere epoche, che pensiamo di conoscere a fondo per averli studiati, per avere riassunto le loro gesta, tradotto pagine che ricostruivano le vicende che li hanno resi protagonisti, letto saggi e romanzi loro dedicati, tanto che qualcuno potrebbe ritenere superfluo l’ennesimo libro che gli viene dedicato.
Certamente, non accade per “Augustus” di John Williams. L’autore americano ci conduce a Roma, durante il drammatico passaggio dalla Repubblica all’Impero, rivissuto attraverso i ricordi dei protagonisti, diretti o indiretti, di eventi che hanno segnato la storia del Mediterraneo.
Il lettore non troverà (e non potrebbe essere diversamente) in “Augustus” la rigorosa ricostruzione storica dei fatti accaduti o la biografia del primo imperatore romano in quanto, come l’autore precisa nella nota introduttiva, per esigenze narrative è stato cambiato l’ordine di alcuni avvenimenti, ma anche perché Williams ha: “inventato laddove i dati storici erano incompleti o incerti” ed ha “creato personaggi che la storia non cita”.
Attraverso una polifonia di voci narranti (appunti di diario, lettere, testimonianze di personaggi storici e non) Willians ricostruisce il lungo periodo che va dalle settimane precedenti le Idi di Marzo alla vecchiaia di Augusto. Il suo è il racconto della storia vista dall’interno, con gli occhi degli uomini, politici, ma anche intellettuali, poeti e filosofi; della storia raccontata attraverso lo sguardo delle donne.
Di alcune donne, in particolare. Donne di potere, capaci di incidere sugli eventi storici. Tra gli altri, Livia che Ottaviano sposa, dopo avere divorziato da Scribonia, già incinta di Tiberio, figlio del precedente marito, che caparbiamente destinerà alla successione. Più di tutti, però, nel firmamento femminile di “Augustus” brilla Livia, l’amata figlia di Ottaviano, strumento delle strategie politiche paterne. In esilio a Pandataria, si racconta in un diario scritto per se stessa, come semplice “strumento di riflessione”, da cui emerge una donna colta, consapevole del proprio potere tanto da dichiarare “che persino una donna poteva restare intrappolata dagli eventi del mondo, e venirne distrutta”. Perché Giulia, come tutte le donne del suo tempo, ma anche del recente passato, non può ambire al potere “con la forza fisica, o con quella della mente, o del desiderio; né, avendolo ottenuto, può compiacersene apertamente, con quell’orgoglio tutto virile che del potere è la ricompensa e il bastone. Deve invece indossare mille maschere, per dissimulare le sue conquiste e la sua gloria”.
La personalità di Augusto emerge dai raccontati di quanti hanno lavorato con lui, che hanno condiviso, o subito, le sue scelte, fino a quando l’imperatore prende la parola nella narrazione per rivelarci qualcosa che non ci saremmo aspettati:
“Io sono un uomo, debole e sciocco
come la maggior parte degli uomini;
se ho un vantaggio sui miei simili,
è quello di esserne consapevole,
e quindi di aver compreso le loro debolezze,
senza la presunzione di trovare in me più forza e più saggezza
Una coppia di sposi che non hanno più nulla da dirsi, irrimediabilmente divisi da un lutto che ha distrutto la loro esistenza; un uomo che ha capito il proprio errore, per il quale, in parte, ha pagato con alcuni anni di carcere. Sono i protagonisti di un romanzo ispirato ad un fatto realmente accaduto, ad un racconto fatto all’autore da un padre che, per caso, incontra l’assassino della propria figlia.
Ne “Gli ultimi giorni di quiete” è Nora ad imbattersi, durante un viaggio in treno, in Paolo Dainese, l’uomo che ha provocato la morte del proprio figlio, Corrado, durante un tentativo di rapina nella tabaccheria del marito Pasquale. Scoprire che l’assassino del proprio figlio è tornato libero, dopo appena cinque anni di carcere, con una considerevole riduzione della pena, sconvolge la vita, già duramente provata, della coppia. Nora e Pasquale sono costretti ad affrontare una realtà che non avevano ipotizzato e che scava ulteriormente la distanza che li separa dalla morte di Corrado. Distanza che Nora sembra volere accrescere con ferma determinazione avviandosi lungo una strada che la porterà ad allontanarsi da casa per porre fine alla quiete di Dainese che, dopo essere tornato libero, sta tentando di ricostruire la propria vita: ha trovato lavoro, ha una relazione stabile e pensa alla possibilità di avere un figlio. Una normalità che, secondo, Nora non merita e che lei intende fare saltare, attraverso un piano che metterà in pratica, passo dopo passo, con lucida sistematicità. A guidarla è l’odio, sentimento che individua e accoglie quale grimaldello per minare la quieta esistenza che Dainese sembra avere raggiunto:
“ Se stava attenta poteva sentirlo quell’odio ringhiare
come un mostro vulcanico che ribolliva minaccioso,
pronto a spandere lava tutt’intorno alla prima scossa tellurica”.
Sentimento che Nora sembra condividere con Pasquale il quale riesce a procurarsi una pistola per uccidere, lui che non ha mai sparato, l’assassino di Corrado. Nora e Pasquale, però, si muovono lungo strade diverse per approdare a traguardi differenti che lascio scoprire al lettore che si ritroverà combattuto tra sentimenti contrastanti. La solidarietà nei confronti di Pasquale e Nora per la loro perdita; la delusione nei confronti della giustizia, apparentemente, incompiuta; la consapevolezza che bisogna sempre dare una seconda opportunità a chi ha sbagliato e ha riconosciuto il proprio errore.
Insomma, il romanzo, pur nella linearità della narrazione, ruota intorno a temi attualissimi, sempre al centro di confronti e di dibattito:
“Un uomo è condannato per sempre, allora? Fine pena mai? A cosa servono i processi, la legge, la galera? Lui aveva capito, aveva capito tutto. Gli errori commessi, la voglia di ricominciare, lasciarsi alle spalle quello che era una volta. Voltare pagina e provare a essere un uomo migliore”.
“Ci sono momenti della vita in cui si cresce e si invecchia in poco tempo. Accade nel dolore, certo, accade anche nello smarrimento, nel fatto che prima il mondo ha la terra e il cielo e poi il mondo ha l’inferno, la terra e il cielo”.
Così Margherita, protagonista e voce narrante del romanzo, riflette sulla storia che, nella finzione letteraria, ha iniziato a narrare, come un diario di eventi oramai lontani, ma che hanno segnato la sua esistenza, spingendola lontano dall’Italia, fino in Australia, nella consapevolezza, tuttavia, che “Non c’è più il tempo per ricominciare a vivere”.
Non potendo più “ricominciare a vivere”, Margherita viene sollecitata a scrivere per raccontare quello che definisce un incantesimo che la tenne prigioniera spingendola a compiere azioni irreparabili, per riuscire a fuggire e conquistare (solo apparentemente, tuttavia) la libertà. Il diario di Margherita, come apprenderemo, ha una finalità terapeutica (nella narrativa italiana, questa non è certamente una novità), ma il lettore non saprà mai se l’esito sarà positivo. Come non saprà (il lettore) cosa sia realmente accaduto nella casa di vetro, da cui era possibile vedere la cupola di San Pietro, che Margherita aveva definito una Camelot, luogo incantato, di leggende fiabesche, insomma, ma che ben presto si rivelerà un finis terrae, un hortus conclusus in cui niente è come appare.
Margherita viene accolta nella casa di vetro (una villa senza pareti di cemento, appunto, attribuita al celebre architetto contemporaneo Rem Koolhaas) come istitutitrice di Lucrezia e Lavinia, due gemelle deliziose e talentuose, alle quali dovrà insegnare le lingue straniere e seguire nello studio del pianoforte e nello sport. Le due gemelle, però, riveleranno ben presto una forza soprannaturale, capace di determinare gli eventi e richiamare fantasmi inquietanti dai quali Margherita dovrà fuggire.
“Loro” si presenta come un romanzo gotico, nel solco della tradizione letteraria del genere, ma, come lo stesso autore ha avuto modo di affermare, è anche altro. Può infatti essere letto come un romanzo di fantasmi, come un romanzo sul bene e il male, sull’essere e apparire, su ciò che è reale e ciò che è immaginato. Insomma, “Loro” è un romanzo che sfugge ad ogni definizione, che inquieta, ma nello stesso tempo rasserena, perché spinge il lettore a fare i conti con se stesso e la propria coscienza. Perché, come scrive Cotroneo:
“I fantasmi si evocano perché ci obbediscono, e non il contrario”.
Ripropongo la mia lettura di “Due vite” a cui è stato appena assegnato il “Premio Strega”.
Inizia come una fiaba, prosegue come un racconto in cui biografia e autobiografia si intrecciano tessendo la narrazione di un’amicizia a tratti difficile, ma mai venuta meno. Anche quando la vita, per un periodo ha separato, anche quando la morte sembra avere tolto ogni possibilità di incontro. Perché nell’assenza il dialogo con l’amico, quello vero con cui si sono stati condivisi i giorni della spensieratezza o del dolore, non viene interrotto, nemmeno nella distanza.
Due vite di Emanuele Trevi è tutto questo e, certamente, tanto altro che il lettore avrà modo di scoprire attraverso la ricostruzione dell’esperienza umana e culturale di Rocco Carbone e Pia Pera, certamente autori di “nicchia”, ma il cui contributo nella storia della letteratura italiana non può certamente essere trascurato.
Dalle pagine di Trevi emergono due ritratti complementari di Carbone e Pera.
L’uno (per dare valore alla vecchia locuzione latina, secondo cui nomen omen) spigoloso e duro, tormentato da una profonda infelicità, provato da un male di vivere senza nome che ne ha condizionato la vita fino alla morte prematura..
L’altra una signorina per bene, ma tenace e determinata, profonda conoscitrice della letteratura slava, abile traduttrice, capace di rinunciare alla carriera per ritirarsi in un podere di famiglia e dare vita ad un giardino, figlio di un sogno inseguito anche negli anni della terribile malattia che l’ha portata via prematuramente, ma che lei ha affrontato con dignità encomiabile.
Così Trevi: “Quando per lei è arrivato il momento, ha rivelato enormi riserve di saggezza e forza d’animo, combattendo bene la sua battaglia […] Era semmai una persona intensa, dotata di un’anima prensile e sensibile, incline all’illusione, facile a risentirsi”.
Due persone complesse Carbone e Pera con i quali l’autore ha condiviso sia momenti spensierati che scelte difficili. Non è dunque peregrina l’idea che Trevi (certamente inconsciamente) narrando di Carbone e Pera abbia voluto raccontare di sé, dell’amore amicale nei confronti di due compagni di strada che la morte ha allontanato, lasciando dei sospesi che, in particolare per quanto riguarda il rapporto con Rocco Carbone, avrebbero potuto essere causa di rimorsi.
Fu Cesare Garboli nel suo saggio su Antonio Delfini ad affermare che “in ogni amicizia c’è un rimorso”, come ricorda Emanuele Trevi che confessa così il sentimento nei confronti di Carbone da cui per un lungo periodo si era allontanato con una determinazione che influenzò i rapporti successivi. Sebbene i motivi che avevano portato alla separazione sembrassero superati.
Dunque, Due vite può essere letto come un omaggio alla memoria di due amici, ma anche alla propria vita, nella consapevolezza che ciò che è stato deve essere rielaborato per proseguire nella navigazione, per tutto il tempo che ci sarà concesso.
Voglio concludere queste riflessioni con quanto scrive Trevi, poche frasi, che rivelano il senso di tutto il libro:
Il Quartiere (non un quartiere, ma il Quartiere) della periferia di Roma (la Roma dei gabbiani che si nutrono dell’immondizia non raccolta, la Roma del mondo di mezzo, delle ingiustizie e delle esclusioni) incastrato tra il Raccordo e l’Aniene è il palcoscenico su cui si muovono i tre giovani protagonisti.
Flaviano, Manuel e Abdou sono legati da un affetto sincero e generoso, ma anche da uno stesso destino. Il destino di chi è escluso e rifiutato: Flaviano è stato abbandonato dalla mamma quando era ancora un bambino; Abdou è partito in avanscoperta ed ha raggiunto l’Italia su un barcone, un ragazzino mandato dal padre rimasto in Costa d’Avorio con le figlie; Manuel di origine egiziana, ma nato in Italia, deve confrontarsi con i genitori che immaginano un futuro costruito sui loro sogni, incuranti delle sue aspirazioni.
Il Quartiere è il loro mondo, vissuto con sofferenza, subordinati al Reuccio, il boss indiscusso, il cui potere è alimentato dall’incuria e dalla latitanza delle autorità. A lui gli abitanti del Quartiere si rivolgono per dirimere litigi; a lui chiedono di intervenire per risolvere i piccoli problemi di manutenzione degli stabili: “chi è bravo con l’idraulica aiuta chi è bravo con l’elettricità, che aiuta chi è bravo coi lavori in muratura, che aiuta chi è bravo con l’idraulica”, in un continuo dare e ricevere che toglie spazio alla legalità ed alle libertà individuali.
Tommaso Giagni ci conduce in questo mondo con la tecnica della carrellata cinematografica, guidata dall’occhio attento di un regista che costruisce immagini di forte plasticità, usando con abile consapevolezza le parole che (direbbe il poeta) “a lettere di fuoco” si imprimono nell’immaginazione del lettore , spinto fuori dalla comodità e dalle sicurezza del proprio mondo gentile, costretto a fare i conti con la realtà di un mondo volutamente tenuto al margine, ma che rischia di esplodere. Proprio come accade nel romanzo di Giagni.
A innescare la miccia ci penseranno gli abitanti di un quartiere residenziale Verde Respiro, un agglomerato di villette ispirate a quadri famosi, i cui residenti sono disturbati dalla presenza del Quartiere che ne minaccia l’eleganza e ne svaluta il valore. Tra gli abitanti di Verde Respiro c’è Donatella, giovane anticonformista, che desidera “capire i meccanismi del mondo” empaticamente vicina al Quartiere e lontana anni luce da Verde Respiro, al punto da divenirne nemica impietosa.
Nell’ultimo anno, segnato dalla ben nota pandemia, ci si è chiesti se, quando tutto sarà finito, ci ritroveremo migliori di quelli che eravamo prima del gennaio 2020, allorché anche in Italia si prendeva atto che quella provocata dal Covid 19 non sarebbe stata una semplice influenza e che il contagio non interessava solamente la Cina. Le risposte più ottimistiche hanno lasciato intravedere la possibilità di un mondo migliore, fondato sul rispetto nei confronti dell’ambiente che ci ospita e dei nostri simili. Molto presto, però, abbiamo dovuto osservare che, ancora una volta, la speranza di diventare migliori non è facilmente realizzabile. Essa appare, piuttosto, come un’utopia. Dunque, per definizione, è irrealizzabile. Non si tratta, siatene sicuri, di una lettura disfattista e pessimista, quanto, piuttosto, della facile considerazione di chi osserva dalle cronache quanto sta accadendo nel mondo, anche in questo preciso momento; di chi si sofferma a osservare l’animo umano, a scavare a fondo per comprendere le ragioni di fatti, anche lontani tra loro, ma tutti con un’unica ragione comune: il male che gli uomini portano con sé e che lasciano dilagare.
È quanto fa Loredana Lipperini (narratrice che si muove tra gotico e fiction, tra magia e profezia) che ci conduce in un paese immaginario delle Marche, Vallescura, che potrebbe avere, in potenza, gli elementi per assurgere a locus amenus, se non fosse abitato da donne (gli uomini nel romanzo sono poco significativi, figure marginali e irrilevanti) che portano dentro di sé il male, da cui, poi, far scaturire la peste, capace di sterminare tutti gli abitanti del paese.
La narrazione, che procede per livelli temporali diversi, ruota intorno ad alcune figure femminili di cui, certamente, quella più inquietante è Saretta, donna disperatamente incompiuta, vittima di se stessa, bulimica fin dalla fanciullezza, incapace di controllare il rapporto con il cibo che l’ha resa brutta e sgraziata, ma che –probabilmente per compensare – si è ricavata (apprendiamo anche con la violenza, non solo psicologica) il ruolo di despota di un’intera comunità, pronta a eseguire i suoi ordini, anche quando lasciati passare come semplici considerazioni:
“Tutti vanno da Saretta quando c’è un problema,
tutte, soprattutto, fra donne si trova la soluzione più in fretta,
gli uomini sono lenti a capire, si fissano su particolari
di nessuna importanza”.
Lei, dunque, non è sola nel suo ruolo di custode, ha saputo conquistare la complicità di altre donne, esecutrici passive della sua volontà: “Ma questa sera Saretta, Annalisa, Maddalena e Fiorella sono di guardia. Il paese appartiene a loro: sanno, controllano, decidono, dispensano consigli sedute sulle sedie di paglia o di tela dipinta a bolli rossi e arancioni”.
Quella di cui si parla nel passo citato non è una sera come tutte le altre (una tranquilla sera d’estate che le donne del sud della mia infanzia trascorrevano sedute sull’uscio per sfuggire al caldo con qualche chiacchiera): sanno, infatti, che “una catastrofe sta arrivando, e che li scaccerà”. Lo sa soprattutto lei, Saretta, che ha da tempo individuato il nemico da eliminare per salvare il paese dalla fine imminente: si tratta di Maria, un’altra donna. La donna venuta da fuori, indesiderata e guardata con sospetto fin dal primo giorno, isolata per volontà di Saretta in attesa che venga allontanata (anche con la violenza, se è il caso) perché considerata pericolosa per il bene dell’intera comunità:
“Noi siamo uniti, pensava Saretta con ferocia, e lo siamo
perché nessuno viene a mettere in discussione il nostro mondo.
Ma perché questo mondo continui dobbiamo contarci,
dobbiamo essere solo noi”.
Poi c’è Chiara, un’altra straniera, ma conosciuta e tollerata perché è la nuora di un’anziana del paese, che non si è lasciata assorbire dal cerchiomagico: “Chiara è un’anima buona, oltre che una sognatrice. Scrive, beve tè bianco, va alle mostre, nutre i gatti e legge molto”. Ha raggiunto Vallescura per aiutare la suocera Aurelia (la ritiene tale benché da anni abbia divorziato dal marito) che ha avvertito in pericolo grazie a un sogno, nel quale era chiamata a seppellire i morti di peste. Chiara vorrebbe portare via Aurelia, prima che il male si diffonda, ma la ferma la consapevolezza che “si può sconfiggere solo quando si è insieme. La natura è più forte degli uomini. Gli uomini possono sperare di batterla, momentaneamente, solo unendosi”.
Infine, c’è una giovane donna, poco più che fanciulla, che ha sfidato pubblicamente Saretta di cui adesso rischia la vendetta. Sarà accolta da Aurelia e Chiara. A Carmen, questo possiamo dirlo senza rivelare nulla, avrà il compito di trasmettere la memoria della peste e la consapevolezza che il male è sempre in agguato, soprattutto nei momenti di debolezza, quando si è più vulnerabili. Un compito quasi titanico nella consapevolezza che gli uomini non cambiano, sono sempre gli stessi, anche di fronte alla peste. Oggi, come nel Medio Evo o nel Seicento, durante le due pestilenze raccontate dalla storia e dalla letteratura.
Lo sguardo di Loredana Lipperini, infatti, si volge lontano nel tempo, per costruire un racconto che si legge d’un fiato (direi quasi che “si fa leggere”) coinvolge il lettore, lo costringe a guardare dentro il proprio animo e intorno a sé con sguardo acuto e mente libera dai pregiudizi.