“La vita non appare priva di significato, semmai ne è così ricca che il suo significato deve essere costantemente ucciso per il bene della coesione e della comprensione”.
Ci sono romanzi che si limitano a raccontare vite, più o meno reali. Poi ci sono romanzi che raccontano la Vita, anche quando i protagonisti appaiono lontani, non solo geograficamente, dal lettore. È il caso di “Karoo” il romanzo postumo di Steve Tesich (mancato nel 1996), pubblicato negli Stati Uniti nel ’98 e in Italia da Adelphi soltanto nel 2014.
Steve Tesich, serbo naturalizzato statunitense, sceneggiatore, premiato con l’Oscar, drammaturgo e scrittore, ci regala un personaggio disturbante, a tratti sgradevole e odioso, ma fortemente umano. Saul Karoo, disgustosamente ricco, grazie alla propria abilità di “scribacchino”, è consapevole di non essere un artista. Da tempo ha messo da parte il sogno di scrivere un proprio romanzo, tuttavia a Hollywood è lo “scriptor doctor” più ricercato e retribuito, perché riesce a trasformare un film (anche di grande valore artistico) in una pellicola da botteghino.
Saul è consapevole dei proprie manchevolezze e dei propri limiti , sia professionali che personali, ma come un inetto si lascia vivere, preferendo la continuità di un’esistenza, comunque triste e deludente, piuttosto che rimediare agli errori ben noti. Fino a quando non accade qualcosa che lo spinge a diventare artefice del proprio destino, ma che lo rende (novello Ulisse) colpevole di Hybris, perché non è possibile decidere per gli altri. Anche quando si tratta delle persone amate e si vuole agire per la loro felicità.
Con leggerezza, solo apparente, però, e ironia per mezzo di “Karoo” Steve Tesich ci racconta la vita con il suo carico di illusioni, delusioni, sogni irrealizzati, errori, vigliaccherie, egoismi (l’elenco potrebbe proseguire, ancora, ma non voglio togliere al lettore il piacere della scoperta, né risultare tediosa).
Fino alla tragedia che l’autore abilmente lascia intravvedere nel corso della narrazione, insinuando un sospetto che il lettore vorrebbe scoprire infondato e che condurrà anche ad altro, ad un dolore che non concede vie di fuga né riscatto.
La formazione di molte donne a partire dalla generazione degli anni Cinquanta è avvenuta per sottrazione. Fin da bambine hanno lavorato per evitare di somigliare alle donne loro vicine, per liberarsi dall’iniquità cui quelle donne erano costrette dal ruolo di mogli e madri, percepite come vittime infelici di un padre e marito visto come il carnefice e, in quanto tale, indesiderato e poco amato. Così è stato per Donata, la protagonista de “La memoria del cielo” .
Per tutta l’infanzia Donata ha nutrito e cullato dentro di sé la convinzione, frutto di fantasia, di essere arrivata “dal mondo della luna” per salvare Teresa , di averla scelta come madre “per andarle a dire, nascendo, che non tutto è così malvagio” e per liberarla dalla casa prigione in cui trascorre giornate intere a confezionare abiti per “le signore”.
Ormai adulta, Donata cerca di ricostruire attraverso la memoria gli anni della propria infanzia e adolescenza, provando a mettere ordine ai ricordi, nel tentativo di ricostruire una verità impossibile da trovare perché: “I ricordi dell’infanzia non sono nostri: se nessuno ce li regala, non esistono. Per questo l’infanzia è una colossale menzogna, che raccontiamo prima di tutto a noi stessi”. (pag. 41)
Fin dai primissimi capitoli del romanzo, dunque, sembra che Donata voglia metterci in guardia sul valore da dare al suo racconto e sulla credibilità del suo narrare, fino a svelarci quanto i ricordi possano risultare ingannevoli, perché imprecisi se non addirittura sbagliati:
“Ce li portiamo tutta la vita dentro come se fossero tesori e poi?
Hanno la stessa sostanza della fantasia.
Assomigliano alle storie che c’inventiamo, né più né meno”. (pag. 171)
Donata adulta, quindi, sentirà il bisogno di apprendere il reale svolgimento dei fatti vissuti dalla propria famiglia per conoscere veramente quel padre che aveva sempre rifiutato e condannato perché causa dell’infelicità di Teresa:
“Mi fu chiaro che dovevo difendere mia madre
anche dall’uomo che aveva sposato…” (pag. 80).
Attraverso i ricordi della fanciullezza, per quanto ingannevoli, Donata racconta i cambiamenti dell’Italia del dopoguerra, l’Italia del boom economico reso possibile da quella che chiama “epica del sacrificio”, fondata su un eroismo fatto da rinunce e privazioni che, certamente a lei erano risparmiate (per la bambina c’erano sempre a tavola la carne e il pesce), ma che non accettava. O meglio, la piccola Donata sentiva il bisogno del superfluo, di cui, sostiene “Non è vero che ne possiamo fare a meno”, nella convinzione che “Concedersi le cose inutili è come fare un passo laterale e andarsene per i viottolini di campagna”. (pag. 119) Grazie a quelle rinunce, però, oltre all’appartamento i genitori di Donata poterono acquistare la lavatrice che permise a Teresa di liberarsi fatica del bucato a mano, pur non salvandola dal lavoro di sarta.
"L'amore di Lucia per me, a me in persona sicuramente e semplicemente destinato, sta nl non avermi portata con sé nella morte, sta nel dove non mi ha portata e nel suo avermi riconsegnata alla vita. Alla vita di tutti. Facendo, della mia vita, fin dalle sue origini, vita che torna a tutti"
Quello che vi racconto oggi non è un romanzo.
È molto di più.
È il resoconto di un’indagine svolta – con la disperazione dell’amore di una figlia che comprende e non giudica – per ricostruire la storia della madre naturale che, negli anni Sessanta, è stata protagonista di un episodio di cronaca su cui i giornali dell’epoca hanno sentenziato sulla base di pregiudizi e perbenismi fondati sull’ignoranza. Ignoranza che non è solo non conoscenza dei fatti, ma soprattutto mancanza di cultura. Un esercizio che oggi, non solo la stampa, ma anche i social esercitano con superficialità, come nel caso della vicenda del piccolo Enea.
Perché, come oggi il piccolo Enea, nel 1965 Maria Grazia Calandrone venne abbandonata da mamma Lucia come estremo atto di amore, nella ferma convinzione che rinunciando all’amore più grande della sua dolorosa esistenza, la figlia, avrebbe potuto permetterle di vivere quella vita che le era stata negata.
“Dove non mi hai portata” è una storia devastante. La protagonista è una donna, figlia “indesiderata” perché la quarta femmina di una famiglia contadina: giunta al posto del maschio tanto atteso, fin da piccola deve imparare che “prendere la vita è muoversi da soli e poi durare”. Quella di Lucia è la storia di tante donne del sud contadino del dopoguerra: non possono studiare perché devono aiutare in casa e nei campi. Non sono libere di amare: il marito viene imposto dal padre, con la violenza e la minaccia: i genitori
“legano le ribelli a un albero coperto di formiche
e le lasciano lì tutta la notte,
per piegare la loro volontà a matrimoni indesiderati”.
Con Lucia non sarà necessario arrivare a tanto, nonostante faccia “i numeri del circo” perché non vuole sposare Luigi, “un infelice e un obbediente”, incapace di scegliere e decidere, manovrato dai propri familiari i carnefici di Lucia. Negli anni del matrimonio, mai consumato, Lucia sarà trattata come una schiava: picchiata e costretta a lavorare nei campi (mentre Luigi dorme, giorno e notte), rimane senza cibo per giorni. Tutti in paese sanno, anche i genitori di Lucia, ma nessuno fa niente, perché, con le nozze, la moglie diventa proprietà del marito.
Fino a quando, Lucia incontra Giuseppe, “un uomo capace di sognare insieme a lei il sogno semplice del futuro”. Conosce l’amore, da cui nascerà Maria Grazia, figlia della colpa e del tradimento, all’epoca considerato reato penale. Lucia e Giuseppe sono costretti a lasciare il paese e raggiungere Milano, sperando di potere costruire una famiglia. Un sogno impossibile da realizzare e che farà maturare nei due amanti la decisione di rinunciare alla figlia e suicidarsi nel Tevere, pagando così “l’orgoglio di essersi amati”, in una società che giudica e condanna perché
“Ho passato l’infanzia e l’adolescenza a fare l’innamorata: sognavo la mia vita futura leggendo romanzi rosa, e gli unici film che ritenevo degni di nota erano quelli che mettevano in scena una storia d’amore più o meno complicata e felice, sempre passionale. Da ragazza ho continua a cercare il grande amore: fare l’amante non mi interessava nemmeno allora; l’amore senza legami lo trovavo insulso. Eppure, dopo aver avuto i miei figli, non sono mai passata alla tappa successiva. non ho mai cambiato categoria per diventare una madre. Così, pur facendo del mio meglio, la maggior parte del tempo sono troppo occupata a fare l’innamorata per essere una brava madre”.
(Pag.114)
Chi mi segue lo sa: non parlo mai di libri che non mi sono piaciuti, sebbene nel mio nuotare nel mare magnum dell’editoria, in particolare di quella italiana, ne incontri, fin troppo spesso, brutti e scritti male. Tuttavia, se parlo di “Mio marito” non significa che si tratti di un romanzo che ho amato o che mi sia particolarmente piaciuto. Anzi, ti devo confessare, caro lettore del mio blog, che dopo averne completato la lettura, già da parecchi giorni, ho provato un profondo senso di delusione assieme ad una acuta angoscia. Ti starai chiedendo, certamente, la ragione.
Si tratta, indubbiamente, di un libro scritto bene, leggibile e, almeno inizialmente, divertente. Se con fosse che, proseguendo nella lettura, pagina dopo pagina, cominci a sospettare che l’io narrante mostra i segni di una grave psicosi che andrebbe curata con metodi differenti da quelli che di fatto applica.
Scopri una donna che (pur avendo tutto: bellezza, ricchezza, cultura
– insegna inglese, part time, e svolge la professione di traduttrice – un marito elegante, raffinato, bello, due figli straordinari) è di fatto una psicotica, incapace di amare (nonostante le continue e ossessive dichiarazioni d’amore nei confronti del marito), egoista, fedifraga.
Certe trovate, che all’inizio potrebbero sembrare simpatiche, espressione di ordine sistematico (i quaderni tematici colorati) si rivelano per quello che sono: prove tangibili di una psicosi pericolosa ed inquietante. Ignoro, non ho voluto approfondire, se vi siano elementi autobiografici (qualcuno certamente), ma mi ha disturbata molto l’immagine del matrimonio che vien fuori alla fine del romanzo. Perché niente è mai come appare.
La conclusione, infatti, si rivela l’elemento devastante dell’intero romanzo: il matrimonio, direi meglio, più in generale, la relazione di coppia diviene una farsa, perché fondata sulla recita di ruoli che nascondono la reale natura dei protagonisti, la dipendenza psicologica, il godimento per punizioni e umiliazioni continue.
“La lezione non è, dunque, un accasciarsi degli allievi a contatto col maestroper farsi riempire, forse intasare, dalle sue conoscenze. Ma, in senso inverso, neanche il maestro si deve accasciare sui propri studenti,sacrificando la dignità della propria professione alla sirena del facile gradimento. Come è umiliante per gli studenti l’essere trattati alla stregua di contenitori da riempire,così risulta altrettanto umiliante per l’insegnate l’essere un pavido favoreggiatore dei suoi studentie accettare di essere trattato come tale”.
(pag. 31 e ss)
La scuola è argomento di dibattito quotidiano amplificato dai social network attraverso polemiche sterili e strumentali. Tutti nel nostro Paese si sentono autorizzati a parlare di scuola come se, per il solo fatto di averla frequentata, più o meno felicemente, abbiano raggiunto le competenze necessarie ad esprimere valutazioni su un sistema complesso ed articolato. Spesso questi sedicenti esperti di didattica e di sistemi scolastici non fanno altro che amplificare luoghi comuni e slogan di chi vuole distruggere un’organizzazione ancora oggi spesso indicata come modello. Basterebbe, per togliere spazio e fiato a questi amplificatori del nulla, vedere i risultati internazionali dei nostri giovani, dei tanti “cervelli in fuga”, costretti ad affermarsi all’estero perché l’Italia non consente loro di realizzarsi coerentemente con il titolo di studio acquisito.
È chiaro dunque che il problema non è la preparazione dei giovani italiani ai quali, dobbiamo dedurre, la scuola fornisce conoscenze, competenze, abilità, strumenti per aver successo. Con buona pace di chi sostiene che la scuola italiana debba essere bocciata, senza appello.
Tra il tanto parlare di scuola, può tuttavia accadere che si levi qualche voce autorevole, capace di proporre riflessioni costruttive, come accade con il saggio di Gustao Zagrebelsky “La lezione”. Certo, considerato lo spessore culturale del Prof. Zagrebelsky può apparire scontato il giudizio positivo in merito alle sue considerazioni, anche quando, sulla base della nostra esperienza quotidiana, non le abbiamo trovate del tutto condivisibili. Ciò nonostante , “La lezione” propone un’analisi vera degli errori che si sono diffusi negli ultimi decenni, che hanno svilito e tolto valore all’insegnamento, spesso svuotato di contenuto, a danno di docenti e discenti.
A questo scivolamento verso il basso ha contribuito la scelta, più o meno consapevole, di certi “insegnanti i quali, aspirano a essere in sintonia con i loro studenti, si adeguano alle loro mode”. Sono, secondo Zagrebelsky quei docenti che hanno rinunciato “a essere punti di riferimento, a essere, anche quando occorre, scogli da affrontare e superare nel processo di crescita culturale”. Insomma, alla scuola è accaduto quanto si è verifica in alcune famiglie in cui i genitori non vogliono (o non sanno) essere educatori, limitandosi ad assecondare i figli, a difendere i loro errori attribuendone la responsabilità ad altri.
Certamente, non è più tempo dell’autoritarismo del passato, tuttavia bisogna essere consapevoli che per educare bisogna assumersi responsabilità e scelte, anche impopolari: l’obiettivo di un Insegnante (utilizzo la maiuscola per scelta consapevole) non è essere popolare con i propri studenti, ma diventare per loro un punto di riferimento. La “democrazia a scuola” non è una conquista positiva come evidenzia Zagrebelsky ricordando gli anni della contestazione, quando i professori erano costretti a cedere il loro ruolo agli studenti che pretendevano di insegnare al loro posto. Situazione che qualcuno pretenderebbe di ripetere oggi.
Non possiamo, a questo punto, non chiederci quale debba essere oggi il ruolo dell’insegnante, in un tempo difficile, in cui molti ritengono che la cultura sia quella che si trova in rete e che basti digitare un motore di ricerca per avere le conoscenze necessarie per la propria formazione, ritenendo che apprendere sia un processo facile ed indolore. Non lo è, invece. Ed è proprio questa la sfida che i docenti oggi dobbiamo affrontare perché, come scrive Zagrebelsky:
“Il primo compito del professore è per l’appunto questo:
smuovere, mettere in marcia con la promessa incerta di qualcosa
che ancora non si vede,
si potrà vedere in seguito, o, forse, mai”.
Insomma, la strada che dobbiamo percorrere è diametralmente opposta a quella indicata dalle sirene incantatrici del tutto subito e senza fatica.
Anna, oramai anziana, un giorno non ha fatto più ritorno a casa dove il marito, Severino, l’ha attesa, giorno dopo giorno. Fino a quando, un anno dopo, in un grigia alba invernale, trascinando una vecchia valigia, Severino parte dal porticciolo di Stromboli (dove si erano trasferiti dopo la pensione) per ritrovare e riportare a casa la donna della sua vita, perché questo è stata Anna per Severino.
Per un intero anno, Severino si è preparato al viaggio, con dedizione e rigore, passeggiando nell’isola per preparare un corpo stanco e malato al lungo pellegrinaggio lungo la Sicilia orientale, in una sorta di via crucis, di città in città, tra i luoghi vissuti e, apparentemente, solo apparentemente, condivisi: Librizzi, Siracusa, Oliveri… Nelle città abitate e sofferte, incontrando gli amici della giovinezza, riannodando i fili di una vita, rievocando brevi attimi di gioia e dolori profondi, Severino scoprirà una verità che negli anni gli era sfuggita, ma che, molto probabilmente, non aveva saputo leggere.
Accompagnando Severino, il lettore incontrerà, senza maschere né finzioni, Anna, seguendola dagli anni della fanciullezza alla maturità. Il viaggio di Severino è dunque il pretesto per ricostruire la storia di Anna, attraverso un alternarsi di voci e intrecci, felicemente costruiti dall’autore, un esordiente che promette di regalarci altre opere di grande valore narrativo. Mentre Severino si muove nel presente della ricerca, riconquistando e rileggendo il tempo vissuto, vediamo Anna vivere una vita che non ha scelto, vittima della volontà altrui, accettata per non fare soffrire chi le vuole bene.
“Le mamme a volte sono egoiste.
Non lo fanno apposta, Dio le mette al mondo per proteggere i figli
e quando è ora non sanno come si fa a lasciarli andare”.
È la riflessione che Severino regala ad una giovane donna incontrata all’inizio del viaggio, una riflessione che, come accade a chi ha tanto vissuto, è frutto dell’esperienza di una vita, del dolore sperimentato nella propria vita o in quella di altri. Nel caso specifico nella vita di Anna, costretta a soffocare il desiderio di vivere come una donna libera e seguire la volontà della madre per la quale:
“Na fimmina nasce per essere mugghìeri di un uomo e mamma d’un figghiu”.
Così Anna, dopo avere provato a sottrarsi, è stata moglie, cedendo all’amore di Severino; ha cercato disperatamente la maternità e quando ha messo al mondo (facendosi beffa della medicina che la voleva sterile) il proprio figlio avrebbe voluto legarlo a sé, condizionandone l’esistenza, decidendo per lui, pur sapendo che “Il bene di una mamma è pericoloso, può essere acqua e zucchero, ma pure veleno”.
Matteo Corrente, pagina dopo pagina, con profondità e pietas ci regala il ritratto di una donna che non ha saputo ribellarsi, probabilmente, come dice Severino, per mancanza di coraggio. Una donna, comunque, che non può essere giudicata, ma che suscita nel lettore sentimenti di compassione (inteso nel significato più alto, “patire con”) empatia e solidarietà.
Arriva sempre nella vita di ciascuno il momento in cui bisogna abbandonare la gentilezza e tirare fuori la fermezza, mostrarsi duri e determinati, nonostante la propria indole. Si tratta, in molti casi, di un passaggio obbligato lungo la strada che dalla fanciullezza conduce alla maturità; un percorso non semplice, costellato da insidie che bisogna imparare a riconoscere ed evitare.
Così è per Gilles Mauvoisin, il “viaggiatore del giorno dei morti”, sbarcato a Rochelle, cittadina costiera del Nord del Francia, sull’Oceano Atlantico. Giunto come clandestino da un cargo proveniente dalla Norvegia, Gilles non sa che la sua vita cambierà radicalmente: del tutto fuori contesto, avvolto in un lungo cappotto nero, in testa un cappello di pelliccia, vagherà per le strade della città alla ricerca delle proprie radici: prematuramente orfano di entrambi i genitori, ha raggiunto la Francia nel tentativo di rintracciare i parenti conosciuti soltanto dai racconti ascoltati nella fanciullezza. Ben presto, scoprirà di essere l’erede di una enorme eredità: una fortuna insperata, lasciatogli dallo zio Octave Mauvoisin, fratello del padre, ma appesantita da segreti che rischiano di imprigionarlo e schiacciarlo.
L’eredità di Octave Mauvoisin lo stava distruggendo.
Aveva paura di andare a fondo,
e non faceva nulla per evitarlo,
come fosse ineluttabile.
Parte dell’eredità ricevuta è la chiave di una cassaforte che potrà essere aperta soltanto individuando la combinazione, una parola da scoprire per riuscire a fare luce sugli oscuri rapporti che legavano lo zio al sindacato. Una ricerca tutt’altro che semplice, causa di inquietudine per il protagonista, ma anche per il lettore di Simenon, narratore lontano dalle tortuosità acrobatiche di certa letteratura, ma capace di condurci tra le stradine fosche di Rochelle, legandoci empaticamente al protagonista.
Fino alla conclusione: felice? Da elogiare o biasimare? Dipende dai punti di vista.
“… io sempre lo diceva che tutte li soferemente che mi incontravino tutte li soportava, … ma però non voleva morire maie, e neanche aveva maledetto alla mia madre e il mio padre, come tante ci ne sono, che bestimino alle suoie cenetore perché lavevino portato a questo monto” pag. 197
Einfühlung è una parola tedesca che possiamo tradurre con immedesimazione, ovvero la capacità di vivere idealmente emozioni, stati d’animo, esperienze di altri il cui racconto riusciamo a sentire come nostro. Tale processo, come sanno i dieci lettori che seguono il mio blog, non è scontato: non sempre gli scrittori (talora neanche quelli premiati e celebrati da critici compiacenti) riescono a condurti dentro le loro storie, ad accompagnarti con la loro presenza e la loro voce. Perché, noi lo sappiamo bene, il lettore dà voce e volto ai personaggi che lo accompagnano attraverso le pagine scritte e lo seguono oltre quelle stesse pagine, quando chiude il libro e teoricamente, solo teoricamente, dovrebbero tacere.
Vincenzo Rabito l’inafabeto, come egli stesso si definisce, diventato scrittore possiede una profonda competenza espressiva che dalla narrazione orale riesce a trasferire sulla pagina scritta, rendendo con una lingua inventata, il racconto della propria esistenza vivo e appassionato ai lettori non solo ragusani. Il romanzo della vita passata, pubblicato a settembre, segue il ben noto Terra matta, divenuto un caso editoriale, dopo essere stato premiato dall’Archivio di Pieve Santo Stefano.
Don Vincenzo (così ho imparato a chiamarlo, dopo averlo conosciuto attraverso le sue pagine) ha trascorso gli ultimi anni della propria vita, chiuso in una stanzetta per scrivere il proprio “romanzo”, come egli stesso lo definisce, con la consapevolezza del proprio ruolo di narratore. Il risultato dell’impegno degli ultimi tredici anni della sua vita è raccolto in quasi millecinquecento pagine che il figlio Giovanni è riuscito a recuperare e di cui ha curato la pubblicazione.
Il romanzo, in parte, racconta vicende già conosciute in “Terra matta”, ma presenta anche episodi e personaggi inediti, escludendone altri. L’esito, senza dubbio felicissimo, è la biografia di un uomo, un ragazzo del ’99, che ha vissuto esperienze dolorosissime, si è trovato, poco più che bambino, in situazione disperate dalle quali con caparbietà e coraggio è sempre riuscito a venire fuori, lasciando a tutti noi un profondo insegnamento: la vita va accolta e vissuta, anche quando sembra non esserci speranza e nonostante i sogni infranti.
Perché Don Vincenzo aveva dei sogni che non ha potuto realizzare, ma non si è mai sottratto ai propri doveri di uomo: primo fra tutti, vivere. Il romanzo della vita passata ricostruisce la storia di un lottatore, rappresentativa dell’esistenza di milioni uomini che, magari, non hanno sentito il bisogno di narrarla in forma scritta, limitandosi a raccontarla oralmente ai propri cari.
“La filosofia è un inarrestabile viaggio di crescita individuale e collettivo, al termine del quale potrebbe sorgere in noi il desiderio di diventare artefici del nostro destino” (pag. 22)
Primum esse, deinde philosophari. Il vecchio adagio latino dovrebbe diventare la stella polare della nostra epoca in cui molti sedicenti maestri, complici anche i social network che danno a chiunque la possibilità di esprimersi su tutto, si ergono a lettori critici, pronti a philosophari, manifestando, però, il vuoto umano e culturale di cui sono portatori. Per essere filosofi, però, bisogna prima essere e per essere è necessario conoscere, abbracciare un Sapere che non è mai finito, che è sempre rimesso in discussione, secondo l’insegnamento di Socrate: so di non sapere. Unica certezza data all’uomo saggio che ricerca la verità. Una certezza che, oggi più che mai, epoca di sofisti del nulla, come dicevamo, sarebbe veramente rivoluzionaria e porterebbe alla Filosofia, intesa come conoscenza e studio, secondo l’insegnamento degli antichi filosofi che furono astronomi, filosofi, matematici, geografi… ricercatori e portatori di conoscenza e per questo temuti dal potere che li perseguitarono e ne decretarono la morte. Come Ipazia, Anassimandro, Epicuro, Olympe de Gouges, Marx alcuni dei filosofi di cui il prof. Saudino ricostruisce la vicenda umana e il pensiero nel suo volume di indubbio successo, considerate il numero di edizioni già date alle stampa.
Il successo del Prof. Saudino e, naturalmente, della Filosofia potrebbe sembrare una contraddizione visto che , secondo il detto popolare che l’autore ha ben presente, la filosofia è quella cosa con la quale o senza la quale tutto rimane tale e quale. Parole che sembrano perfette per una società super tecnologica, nella quale sembrano prevalere le scienze applicate, dove bisogna produrre, dove le multinazionali promuovono progetti finalizzati a distruggere la scuola del sapere nel nome di una scuola di competenze che in maniera altisonante sembrano talora orientati a distruggere la Conoscenza che rende liberi e sviluppa il Libero Pensiero (oltre alle competenze!).
Sostenere che la filosofia non serve a nulla è, da parte del Prof. Saudino, ma anche della vostra lettrice, una provocazione perché tutti noi siamo coscienti del fatto che la Filosofia oltre ad essere “ il sapere più nobile”, – come già aveva detto Aristotele – rende veramente liberi in quanto (sono queste le meraviglie che ci vengono rivelate nella prima parte del libro) serve a creare problemi, a fondare scelte, immaginare altre realtà, criticare il potere, prepararsi a morire, interrogarsi sulla vita. Insomma, ci rende Uomini e ci distingue dai bruti, perché solo l’Essere Umano, per quanto sappiamo ad oggi, è capace di interrogarsi, conoscere, avere consapevolezza di sé e del mondo.
Alberto Boscolo è uno studente, uno come tanti: dopo la maturità (superata con il massimo dei voti) si è iscritto alla Facoltà di Lettere e Filosofia alla Statale di Milano e, come tanti giovani, si è lasciato affascinare dal sogno di un mondo in cui non ci siano sfruttati e sfruttatori . Un sogno che in pochissimo tempo lo porta a superare i limiti della legalità , aderendo alle Brigate Rosse e partecipando (in maniera attiva e convinta) alla lotta armata.
Alessandro Bertante si fa da parte per dare voce direttamente al suo protagonista, lasciando che sia lui a ricostruire il percorso che segna la trasformazione dello “studente sbarbato della Statale”, impegnato nel volantinaggio davanti alla fabbrica della Sit Simens, nel complice e ideatore (accanto a Renato Curcio) di feroci azioni criminali firmati dalle Brigate Rosse.
Il racconto ci conduce nell’Italia degli anni Settanta tra giovani che convivono con i loro figli in case occupate, condividendo il cibo e gli ambienti, con i nuovi arrivati, spesso sconosciuti. Giovani che avevano fatto loro il mito di un Unione sovietica di fatto mai esistita:
“Inneggiavano a Lenin, a Mao e a Stalin
ma facevano già parte del nemico
e alcuni dei dirigenti più scaltri
lo sapevano con certezza ma gli andava bene lo stesso” .
Il passaggio alla lotta armata, che ha segnato la storia del nostro Paese in maniera ancora oggi indelebile, scaturisce dall’attentato di Piazza Fontana, letto già allora come la prima strage di Stato, e dal presunto suicidio dell’anarchico Pinelli. Una lettura, quella del suicidio, immediatamente negata dal gruppo di Bertante per il quale lo Stato “ammazzava impunemente”. Ragione per cui si diffuse la convinzione in “molti compagni che non era più tempo di farsi uccidere senza combattere”.
Quello che accadde successivamente (rapine sanguinarie per finanziare il movimento, sequestri lampo attentati dimostrativi fino al sequestro Moro) è storia condivisa. Come sia maturato tutto ciò, quale sia stato il costo pagato da giovani come Alberto Boscolo viene raccontato in un misto di storia ed invenzione da Alessandro Bertante che , utilizzando fonti e documenti storici, ricostruisce con l’estro del narratore, il percorso di giovani come Alberto Boscolo, un’intera generazione bruciata da un’ideologia, spesso non adeguatamente supportata:
“E poi c’ero io che non avevo una visione ideologica precisa,
ma mi lasciavo trascinare dalla voracità dei vent’anni e dall’urgenza dell’azione …
cercando di vivere la propaganda armata come momento politico principale
e, in qualche modo fondante, della mia visione rivoluzionaria”.