Imparare a perdonare e perdonarsi

“Benedette figliole. Benedette fanciulle con le lenti da vicino e le vene varicose, possibile che non capiate? Le orfane bianche siete voi. Voi siete davvero orfane bianche” (pag.225)

Natàlia, Lucia e Germana sono tre donne non più giovani che fin dalla prima infanzia sono state private delle cure materne. Le rispettive madri, infatti, per motivi affini (il disagio psicologico, in qualche caso emerso dopo il parto, che  le ha rese figlie delle loro figlie) hanno delegato ad altri, mariti, sorelle, parenti, l’accudimento delle tre bambine, rendendosi protagoniste di atti di rifiuto, talvolta reiterati, che –  come scopriremo nel corso della lettura – avrebbero potuto avere conseguenze gravissime. Al dramma dell’abbandono  si sono aggiunti dolori e perdite personali, sconfitte e delusioni eppure  Natàlia, Lucia e Germana, non più giovani ma nonancora anziane, non hanno rinunciato al sogno di avere del tempo per sé,  da vivere lontano, pur per brevi periodi, dalle rispettive madri di cui sono costrette ad occuparsi. Si tratta, com’è facilmente immaginabile, di relazioni tossiche, condizionate dal disamore accumulato nel corso degli anni, difficili da gestire e, apparentemente senza soluzione.

Fino a quando Lucia non propone alle due amiche, ritrovate dopo anni, di vivere tutte insieme, con le rispettive madri, nella sua grande casa e condividere le responsabilità dell’accudimento:

“Un incastro perfetto, considerato tutto.

Una società.

Un sodalizio.

Di più: un gioco” (pag. 29)

Le sei donne (le tre figlie di mezza età e le madri anziane) iniziano la loro convivenza che seguiremo attraverso la narrazione per quaranta giorni: da un mercoledì (18 febbraio, le ceneri) a una domenica (5 aprile, Pasqua di resurrezione). La narrazione, pardon la rappresentazione  di un lungo percorso quaresimale sarà seguita dallo sguardo attento e scrutatore di uno spettatore esterno: perché l’autrice, utilizzando in maniera sapiente e originale la scrittura, mette in scena personaggi, situazioni, sentimenti quasi fosse un dramma teatrale dove il comico e il tragico convivono, come sempre accade nell’esistenza quotidiana, per raccontare vite spezzate che imparano a ricomporsi, rapporti conclusi che possono ricominciare, affetti negati che si scoprono. Succede anche nella vita. Perché questo è la letteratura: la vita che diventa parola e che, attraverso la parola, si sublima.

Perché accada, però, è necessario scoprire verità e errori e comprendere come porvi rimedio. È necessario imparare ad accogliere e ad incontrare. È necessario sapere perdonare e perdonarsi, come per le nostre donne.

“Il perdono è nell’incontro.

L’uno fa un passo: chiede perdono. L’altro fa un passo: dà il perdono. Un dono più grande.

Il perdono è nell’incontro – nel passo in avanti, e non solo nel gettarsi in ginocchio. Ma anche chi perdona fa un passo verso l’altro, e si getta in ginocchio. Chi chiede perdono e chi dà il perdono sono sullo stesso piano, possono allungare una mano e si toccheranno. Usano i medesimi gesti. Conoscono gli stessi nomi. Essi chiamano male il male, e bene il bene. E tutto questo, coscienza”. (pag.309)

La memoria necessaria

Leo Samuele Olschki  aveva lasciato la Prussia orientale, nel 1883 per trasferirsi  in Italia e fondare la casa editrice che da lui prende il nome. In pochi decenni grazie alle sue raffinate ed erudite pubblicazioni era riuscito ad ottenere importanti riconoscimenti tanto che Vittore Branca, noto critico letterario all’epoca ancora molto giovane, arrivò a indicarlo come «il favoloso principe dei bibliofili, l’amico di imperatori e di re, dei Morgan e degli Acton, di D’Annunzio e di Rilke». (p. 13)

L’affermazione professionale, conseguenza  dei suoi interessi culturali e della passione  per la letteratura italiana (e di Dante in particolare al quale dedica un’edizione monumentale della Divina Commedia) non fu sufficiente dopo il luglio 1938. Una data fatidica questa per il nostro paese, perché segna la promulgazione delle legge razziali e l’inizio della persecuzione  dei cittadini di religione ebraica. Come Leo Olschki, appunto, che negli anni precedenti aveva già dovuto affrontare  attacchi alla propria attività sulla stampa fascista ad opera dei nazionalisti. Il 19 luglio del 1930 su “La tribuna” era stato definito «editore polacco ebreo» reo di “non operare nell’interesse della cultura nazionale” (p. 18). Piccoli segnali  che anticipavano quanto sarebbe arrivato in seguito alla pubblicazione del  R.D.L. del 7 settembre 1938 con l’ingiunzione a denunciare i collaboratori, gli autori, gli impiegati della casa editrice di religione ebraica. Fu l’inizio: le richieste del  “Ministero della cultura popolare diverranno sempre più pressanti fino all’invito ad attivarsi «nel più breve termine di tempo possibile per la sostituzione del nominativo della Vostra Casa Editrice con altro nome ariano» (pag.24)

Ebbe inizio così per la Olschki un lungo e difficile periodo che si protrarrà fin oltre la seconda guerra mondiale e che sarà possibile superare grazie al lavoro e all’impegno degli eredi di Leo. Tra questi vi è Daniele Olschki autore di questo libretto (tale per dimensioni, non certo per il  valore storico e per la ricca e preziosa documentazione che ricostruisce la vicenda) il quale per anni ha custodito un fascicolo intitolato: “Meminisse iuvabit” (gioverà ricordare, appunto, oggi più che in passato) dove il nono aveva raccolto il carteggio con il “Ministero della cultura popolare” , fedelmente riprodotto nel libro.

Storia di una combattente

Marta si stava preparando alla maturità (il momento più intenso per la vita di un giovane,  momento di scelte determinanti per il futuro, di speranze e sogni)  quando improvvisamente si risveglia in un letto della terapia intensiva e prende atto del cambiamento che subirà la sua vita. Fermata da una malattia terribile alla quale non si arrenderà, troverà la determinazione e il coraggio di prendere in mano la propria vita e di ricostruirla, anche quando la lotta si fa impari.

“Ricordo la luna” è la storia di questa lotta. È la storia del coraggio di una ragazza e del difficile cammino nel suo farsi donna. È la storia di donne forti (mamma Anna, zia Franca…) che si sostengono per proseguire, senza mai arrendersi. È la storia di legami familiari che hanno radici lontane, ma forti e vitali, tanto da trasmettere l’energia necessaria ad andare avanti. È la storia di una malattia, ma anche della burocrazia disumana che assume le sembianze di impiegati senza anima, incapaci di vedere, ma abilissimi nel seminare ingiustizie.

Con la forza che la caratterizza, già affinata contro il male,  Marta si impegnerà a combattere per il riconoscimento dei propri diritti calpestati da burocrati freddi e indifferenti, pronti ad umiliare, aggiungendo dolore al dolore. Ma, come scoprirete leggendo il romanzo,  Marta non è una ragazza che si arrende:  anche nei momenti più bui, riesce, metabolizzato lo sconforto, a reagire contando sulle proprie risorse e sulle proprie competenze:

“Avevo un enorme potere: raccontare agli altri la vicenda. Raccontarla avrebbe fatto bene”.

Nasce così il diario online che libera Marta dall’isolamento imposto dal Covid  e la spinge alla condivisione della propria esperienza e della propria vita, tanto da divenire un simbolo, fino a vincere la lotta contro un sistema cieco e irrazionale.

La scelta di un diario online non è stata casuale:  infatti, Marta, nonostante i limiti fisici imposti dalla malattia, si è laureata a Ferrara in Scienze e tecnologie della comunicazione, è diventata una social media manager. Di fatto, svolge la  professione di consulente e formatrice freelance con  attività online. Anche il romanzo è nato da questa sua esperienza ed è stato sostenuto dalla comunità di Twitter sulla quale ha tantissimi follower, così come nella sua pagina  Instagram dove di sé scrive: “Ascolto libri, combatto ingiustizie e creo rose di carta pesta”.

Essere donne senza perdere la propria interezza

(pag. 224)

Ci sono libri che arrivano  quasi per caso, non cercati. Forse proprio per questo, come un dono inatteso, si rivelano preziosi e cari perché giungono al momento giusto. Così è “La Sibilla”, biografia di Joyce Lussu, donna modernissima, dalla vita straordinaria, che si è spesa, fino alla fine, per la liberazione politica  e culturale di donne e uomini del Novecento.

Non si può dunque affidare al caso la lettura della Sibilla, soprattutto in questo particolare momento storico,   in cui i sintomi di un rinato nazionalismo accompagnato da conati di autoritarismo, esercitato con disinvolta tracotanza, minacciano quanto Joyce è riuscita a costruire con abnegazione, assieme al marito Emilio Lussu e a decine di donne e uomini, schierati contro i regimi nazifascisti.

Di nobili origini, nata e cresciuta in un ambiente anticonformista, ma culturalmente molto stimolante, Joyce Lussu non si è mai lasciata intimidire dalla violenza fascista, subita insieme alla propria famiglia. Non ha mai perso la determinazione e il coraggio necessari a portare avanti missioni segrete  non solo in Europa, spendendosi per falsificare documenti d’identità e lasciapassare; nel trasporto di documenti e armi;  sottoponendosi ad addestramenti militari, come, se non meglio di un uomo.

 L’incontro con Emilio Lussu, fondatore di Giustizia e Libertà, di cui nel libro è raccontata anche la rocambolesca fuga dal confino di Lipari, non poteva non concretizzarsi in un comune progetto politico ed in una relazione sentimentale, sempre solida, nonostante le difficoltà, le rinunce (Joyce fu costretta ad abortire, rimasta incinta del primo figlio, rischiando la depressione), i rischi. Non poteva non trasformarsi in un rapporto simbiotico, così forte, che, racconta Joyce in “Fronti e frontiere”, uno dei suoi preziosi scritti:

La biografia di Joyce Lussu è anche la storia dell’Italia antifascista e, dopo il 25 aprile, la storia dell’Italia democratica. È soprattutto, e non a caso, la storia delle donne che hanno contribuito alla nascita dell’Italia moderna e democratica. È  anche (o soprattutto) la storia della loro emancipazione per la qual Joyce si è spesa con tutta se stessa. Sebbene bisognerà aspettare gli anni Settanta prima di conoscere il ruolo di queste donne, confinate, dalla storiografia e dalla pubblicistica, in ruoli minori, nelle retrovie. Eppure erano donne “intere”, aggettivo utilizzato da Joyce per raccontare Elisabetta, una donna sarda, conoscitrice di erbe e guaritrice, l’ultima Sibilla barbaricina.

Un carcere non è una casa

Ci sono romanzi che fai fatica a leggere, che saresti tentata di chiudere e andare oltre, ma che ti impediscono di farlo, costringendoti a proseguire, fino all’ultima pagina, magari sperando in un evento improvviso capace di sciogliere il grumo di dolore e offrire un lieto fine. Sofferto, ma comunque lieto.

“Almarina” rientra senza dubbio tra questa tipologia di romanzi.

Si tratta di “romanzi disturbanti”, come sono solita definire quelle narrazioni capaci di rivelarti un mondo che sai esistere, ma comunque lontano e di cui difficilmente entreresti a fare parte. Valeria Parrella, invece, ti conduce in quella realtà a te estranea con forza impietosa, rivelandoti la precarietà comune a tutti noi umani, insieme a Elisabetta Maiorano, la protagonista del romanzo.

Una donna non più giovane che ha sperimentato sulla propria pelle quella precarietà, ed è capace di individuarla e comprenderla nelle persone intorno a sé, riuscendo a darle un nome e a farsene carico. Insegnante di Matematica, svolge la propria professione a Nisida, nel carcere minorile ospitato dall’omonima isola  nel Golfo di Napoli, di fronte  a Posillipo il cui legame è narrato dal mito.

Nisida infatti prende il nome dalla ninfa che rifiutando l’amore del giovane Posillipo lo costrinse a morire in mare. La crudeltà della ninfa sembra dare forma al carcere minorile che si innalza come un ossimoro in un posto incantevole, quasi un locus amenus, ma di fatto luogo di privazioni.  

Valeria Parrella conosce bene l’organizzazione del carcere minorile per avervi svolto dei laboratori di scrittura creativa, come emerge dalla lettura del romanzo, ma anche per il proprio impegno a favore dei diritti dei detenuti.

Tra i ragazzi reclusi arriva Almarina, adolescente romena, giunta in Italia assieme al fratellino per sfuggire alla violenza del padre che, dopo averla abusata, l’ha quasi uccisa di botte. La ragazza porta addosso, e nell’anima, i segni della violenza paterna, ma anche degli abusi di altri  uomini, incontrati durante il viaggio. Tra Elisabetta, incapace di rimanere indifferente di fronte al vissuto della ragazza, e  Almarina  nasce un legame profondo che si concretizza nella scoperta di un comune sentire, in una quotidianità, appena abbozzata e subito interrotta. Un legame che la separazione non riesce a spezzare e spingerà Elisabetta a tentare di scrivere una nuova pagina per sé e Almarina.

Sarà possibile? La Parrella ci regalerà il lieto fine come nelle fiabe?

Rispondo subito alle domande: “Almarina” non è una fiaba e non si conclude  con “vissero felici e contenti”, il lettore, però, potrà immaginare la conclusione che sente più congeniale. Per quanto mi riguarda, io la mia non l’ho ancora raffigurata. Eppure ci penso già da qualche giorno.

Conta amare non essere amati

Lo sapevate che il battito del cuore ha tanti suoni quanti sono le lingue del mondo? In basco è bun-bun-bun, ma si trasforma in panp-pnap, se batte nervosamente.  In Giappone, dove si svolge la storia al centro del romanzo, un cuore emozionato fa doki doki, ma se è calmo diventa toku toku. In Italia è tu tump. Si potrebbe continuare ancora, ma già questo può bastare per individuare il senso della lunga elencazione  che Laura Imai Messina affida al protagonista: tutti abbiamo un cuore, ma ciascuno lo sente  in maniera diversa.

Shūichi è,  autore   di libri per bambini, che disegna e scrive, decide, dopo la morte della madre di lasciare Tokio per trasferirsi nella casa della propria infanzia a Kamakura alla ricerca del sé che sente perduto. Per anni, ha cercato conferme sui ricordi più brutti della propria infanzia, con decisione negati dalla madre e attribuiti al suo estro narrativo, presente fin  dalla fanciullezza. Shūichi  ha finito con l’arrendersi alle  bugie inventate dalla madre per proteggerlo dal dolore, perché convinta che per essere felici bisogna immaginare la felicità.

Purtroppo, però, l’amore di una madre non può essere sufficiente contro i dolori della vita, soprattutto quelli vissuti da adulti. Lo sa bene Shūichi  costretto a fare i conti con la memoria del suo passato, lontano e recente, che non gli ha risparmiato sofferenze non solo fisiche.    Il ritorno a Kamakura segnerà per Shūichi un nuovo lento inizio, assai diverso da quello che aveva immaginato, grazie a Kenta, un bambino di appena otto anni che gli svelerà molto di sua madre. Ma non solo.

Avrà modo di conoscere Sayaka, incontrata molte volte e subito dimentica, saggia e delicata,capace di mostrare a Shūichi le verità che non riesce a vedere, a condurlo lungo la strada della consapevolezza che il proprio cuore può battere all’unisono con quello di un altro, come in una sinfonia. Fino alla scoperta fatta su “L’isola dei battiti del cuore” dove riuscirà a venire a capo di un piccolo mistero, quasi dimenticato.

Questo  di Laura Imai Messina è un romanzo che si legge d’un fiato: la narrazione procede con la levità di una fiaba, ma riesce a scavare dentro l’animo umano, a cercare significati, a comprendere ciò che rimane del nostro passaggio sulla terra.  Particolarmente interessanti, poi, si rivelano le spiegazioni di alcuni ideogrammi la cui complessità grafica è il risultato di significati profondi che ciascuna parola porta con sé.

Una guerra senza eroi

È facile, quando si legge o  si racconta di guerra,   scivolare  nella retorica dell’eroismo, del sacrificio consumato per un interesse superiore, a rischio della propria vita.  Adania Shibli ne è consapevole e nella prima parte di  Un dettaglio minore sembra quasi spingere il lettore  verso questa retorica. Lo fa accompagnandolo nel deserto del Negev a conoscere un  comandante israeliano le cui giornate si consumano, con ritmo lento,  nel monotono ripetersi di azioni sempre uguali. La giornata del protagonista si dipana tra attività di ricognizione nel deserto, al confine con l’Egitto, ordini ai soldati, igiene personale e medicazioni ad una gamba, per una infezione causata dalla puntura di un ragno e trascurata per portare avanti il proprio incarico.

È proprio questo dettaglio che spinge, pericolosamente, il lettore a solidarizzare con il comandante viene visto nella propria umanità, anche più intima. Fino a quando, nel corso di una perlustrazione, non viene individuata una carovana di beduini massacrati insieme ai propri dromedari. Si salva una ragazza, condotta, come prigioniera, nel campo e la cui sorte è tragicamente segnata: il comandante si macchia di un crimine diffusissimo in guerra.   

Adania Shibli  lo racconta con la  pacatezza e il distacco che troviamo nell’intera narrazione, trasformando l’eroe in carnefice, distruggendo ogni retorica edulcorante, mostrando il vero volto della guerra.

 I fatti della prima parte del romanzo si svolgono nell’agosto del 1949 (l’anno successivo la  guerra arabo israeliana che  causò l’espulsione di 700.000 palestinesi) e   assumono i colori tragici della contemporaneità nel racconto di una guerra che si ripete ciclicamente, senza soluzione di continuità e che, nei periodi di apparente pacificazione, si impone con posti di blocchi, divieti, restrizioni subite dai palestinesi e documentati da Adania Shibli, nella seconda parte di “Un dettaglio minore”, in un contesto apparentemente diverso. La narrazione, infatti, ci porta  nella nostra epoca con protagonista una giovane donna colpita dalla  vicenda della ragazza del deserto,  portata alla luce da un giornalista assieme ad una fatale coincidenza: la ragazza vittima della violenza di gruppo, venne uccisa e seppellita nel deserto, proprio nel giorno in cui nacque la donna palestinese, esattamente venticinque anni prima.

Così la giovane donna decide di lasciare la propria città , combattere contro la paura fino a superare blocchi militari, geografici, fisici, psicologici e mentali. Blocchi da cui i palestinesi sono schiacciati e ai quali possono ribellarsi solo mettendo a rischio la propria vita.

Il viaggio intrapreso dalla giovane donna palestinese si trasforma in una lenta conferma, l’ennesima, della sistematica e impietosa cancellazione della Palestina:

“di palestinese non è rimasto niente, né i nomi delle città e dei villaggi sui cartelli stradali, né i cartelloni pubblicitari i cui slogan so o tutti scritti in ebraico, neppure gli edifici di nuova costruzione, o perfino i vasti campi che si estendono fino all’orizzonte”.

Pubblicato nel 2021, per la Nave di Teseo, il romanzo ci conduce dentro la desolante quotidianità fatta di sopraffazione, tensione minacciosa, intimidazione e divieti. Una quotidianità estremamente precaria come dimostrano i recenti eventi e la cronaca contemporanea.

Storia di un uomo tra gli uomini

L’aggettivo piccolo nel titolo non deve essere fuorviante. D’altra parte anche Catullo, nel dedicare la propria opera all’amico Cornelio Nepote usò la parola libellum il cui fine non era certo quello di sminuire il valore delle proprie poesie, quanto di dare forma al legame di familiarità con il destinatario del Liber.

Così è per il libro di Tullio Sammito dove l’aggettivo piccolo accostato a destino suona quasi come un ossimoro, visto che l’uomo, pur essendo faber fortunae suae, è ben poca cosa di fronte alla grandezza di eventi, legati dalla casualità, che ne determinano e condizionano l’esistenza.

A segnare il destino dei fratelli Sammito fu la scelta di Turiddu, il padre di Tullio di lasciare il  Friuli e ritornare in Sicilia, facendosi carico di un lungo, e per nulla semplice, viaggio di oltre tre mesi.

Dopo l’8 settembre,   Turiddu, in servizio nella Caserma PIAVE di Palmanova, si era trovato allo sbando ed era finito tra i partigiani sloveni.  Caduto  in un’imboscata di militari tedeschi,  era  stato   fatto prigioniero, insieme ai partigiani, e condannato a morte. Il caso (possiamo chiamarlo destino?) gli aveva permesso di salvarsi e di essere accolto da Silvia, una donna friulana il cui marito era al fronte, e nascosto nel fienile dove aveva conosciuto e amato Maria.     La figlia maggiore di Silvia  era consapevole della forza indissolubile che legava Turiddu a Scicli, ma aveva sognato di potere raggiungerlo in Sicilia per costruire insieme una famiglia.

Le cose, però, andarono diversamente e Maria si ritrovò sola con un figlio da crescere, Silvano, con la determinazione e la fierezza che solo l’amore sa dare.

Il legame di Turiddu con il Friuli, però,  non si spezzò mai ed egli custodì nel proprio cuore il dolore di non riuscire ad essere padre di Silvano verso il quale, seppur lontano ed assente, non mancò mai. Sino alla morte, avvenuta prematuramente, lasciando che anche i tre figli ragusani crescessero senza padre, vittime tutti di quella che, in chiave psicoanalitica, potrebbe chiamarsi “paradosso della predestinazione edipica”.

Questa, almeno, la lettura di Tullio Sammito il quale, partendo da frammenti di memoria, da mezze frasi ascoltate da bambino, dall’immagine del padre in lacrime che nasconde la lettera che sta leggendo, ha investigato, interrogato chi sapeva (lo zio paterno che aveva tenuto i contatti) è riuscito a ricostruire un puzzle e riscrivere la propria storia familiare.

Una storia che non è il racconto dei grandi eventi messi in moto dai potenti, non è, insomma la narrazione di guerre e di odi tra nazioni  che costituiscono la macrostoria. È, piuttosto microstoria, ovvero  il racconto delle vicende di uomini e donne comuni, che subiscono le scelte di chi sta in alto, che soffrono e patiscono, ma che possono anche essere  vincitori. Come nel caso di Turiddu:

“la sua vittoria è rappresentata da noi quattro figli. Senza di noi neppure sarebbero esistiti tutti i nostri discendenti: donne bellissime, uomini speciali. Figli e figlie, donne, ragazze, bambini e bambine, pronti a trasmettere a loro volta la vita”. (pag. 141)

L’insostenibile peso della leggerezza

A proposito di Calvino, nel centenario della nascita

Il Calvino metanarratore

“Una notte d’inverno un viaggiatore”

Il realismo del fantastico

Il paese dei ladri

C’era un paese dove erano tutti ladri.

La notte ogni abitante usciva, coi grimaldelli e la lanterna cieca, e andava a scassinare la casa di un vicino. Rincasava all’alba e trovava la casa svaligiata.

E così tutti vivevano in concordia e senza danno, poiché l’uno rubava all’altro, e questo a un altro ancora e così via, finché non si rubava a un ultimo che rubava al primo. Il commercio in quel paese si praticava solo sotto forma d’imbroglio e da parte di chi vendeva e da parte di chi comprava. Il governo era un’associazione a delinquere ai danni dei sudditi, e i sudditi dal canto loro badavano solo a frodare il governo. Così la vita proseguiva senza inciampi, e non c’erano né ricchi né poveri. Ora, non si sa come, accadde che nel paese di venisse a trovare un uomo onesto. La notte, invece di uscirsene col sacco e la lanterna, stava in casa a fumare e a leggere romanzi. Venivano i ladri, vedevano la luce accesa e non salivano.

Questo fatto durò per un poco: poi bisognò fargli comprendere che se lui voleva vivere senza far niente, non era una buona ragione per non lasciar fare agli altri. Ogni notte che lui passava in casa, era una famiglia che non mangiava l’indomani. Di fronte a queste ragioni l’uomo onesto non poteva opporsi. Prese anche lui a uscire la sera per tornare all’alba, ma a rubare non ci andava. Onesto era, non c’era nulla da fare. Andava fino al ponte e stava a veder passare l’acqua sotto. Tornava a casa, e la trovava svaligiata.

In meno di una settimana l’uomo onesto si trovò senza un soldo, senza di che mangiare, con la casa vuota. Ma fin qui poco male, perché era colpa sua; il guaio era che da questo suo modo di fare ne nasceva tutto un cambiamento. Perché lui si faceva rubare tutto e intanto non rubava a nessuno; così c’era sempre qualcuno che rincasando all’alba trovava la casa intatta: la casa che avrebbe dovuto svaligiare lui. Fatto sta che dopo un poco quelli che non venivano derubati si trovarono ad essere più ricchi degli altri e a non voler più rubare. E, d’altronde, quelli che venivano per rubare in casa dell’uomo onesto la trovarono sempre vuota; così diventavano poveri. Intanto, quelli diventati ricchi presero l’abitudine anche loro di andare la notte sul punte, a veder l’acqua che passava sotto. 

Questo aumentò lo scompiglio, perché ci furono molti altri che diventarono ricchi e molti altri che diventarono poveri.

Ora, i ricchi videro che ad andare la notte sul ponte, dopo un po’ sarebbero diventati poveri. E pensarono: – Paghiamo dei poveri che vadano a rubare per conto nostro -. Si fecero i contratti, furono stabiliti i salari, le percentuali: naturalmente sempre ladri erano, e cercavano di ingannarsi gli uni con gli altri. Ma, come succede, i ricchi diventavano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. 

C’erano dei ricchi così ricchi da non avere più bisogno di rubare per continuare a esser ricchi. Però se smettevano di rubare diventavano poveri perché i poveri li derubavano. Allora pagarono i più poveri dei poveri per difendere la roba loro dagli altri poveri, e così istituirono la polizia, e costruirono le carceri.

In tal modo, già pochi anni dopo l’avvenimento dell’uomo onesto, non si parlava più di rubare o di esser derubati, ma solo di ricchi e poveri; eppure erano sempre tutti ladri. Di onesti c’è stato solo quel tale ed era morto subito, di fame.