Messinese di nascita, ragusana di adozione (per amore) insegno Italiano e Latino al Liceo Scientifico "Enrico Fermi". Laureata in Storia Medievale, materia che ho approfondito grazie ad un Dottorato di Ricerca, continuo a coltivare la passione per la lettura e la scrittura che, negli anni messinesi, si sono concretizzati nell'attività giornalistica, prevalentemente, presso "Radio Messina Quartiere", dove - oltre a seguire la cronaca - ho condotto una rubrica settimanale ospitando autori di saggi e romanzi. Ho collaborato con diverse riviste e quotidiani regionali.
Quando
inizia l’inverno? Se la risposta può essere scontata, qualora si considerasse
la stagione metereologica, diventa più complessa se si pensa, metaforicamente,
all’esistenza umana. Perché ciascuno potrebbe individuare un’età diversa in
considerazione delle esperienze vissute, delle aspettative e dei progetti.
Per
Auster l’inverno ha avuto inizio dopo i sessant’anni, alla vigilia di un compleanno
che lo spinge a rivedere tutta la propria esistenza di uomo che è stato figlio,
marito, padre, autore di successo (dopo anni di difficoltà), viaggiatore
in Europa e nel mondo, abitatore di tante, numerose case dalle quali si è
sentito accolto o rifiutato.
Insomma,
è stato, in parte o in tutto, quello che ciascuno è nel corso
della propria esistenza, con la certezza che, come leggiamo fin dalle prime
pagine, “la vita è tutta contingenza, salvo l’unico fatto necessario che prima
o poi finirà”.
Giunge
per tutti il momento in cui bisogna guardare indietro e capire come si è giunti
al punto in cui ci si ritrova, perché quello che si è oggi è sempre il
risultato di tanti piccoli episodi che magari, mentre viviamo, non ci sembrano
significativi, ma che, comunque, segnano la nostra esistenza, in maniera più o
meno visibile.
Per
Auster il segno tangibile della vita trascorsa sono le cicatrici “specialmente
quelle sul viso che vedi ogni mattina quando ti guardi allo specchio, nel bagno
per pettinarti o per farti la barba”. L’inventario quotidiano (è l’autore a
definirlo così) delle cicatrici lo
riportano alle ferite che le hanno lasciate. Tuttavia, Auster è consapevole che
ben altre cicatrici, meno visibili, hanno segnato la sua esistenza. Forse le
più significative sono quelle degli errori commessi per non avere compreso
subito la strada da intraprendere, per essere stato “sempre smarrito, sempre a
prendere la direzione sbagliata, sempre a girare in tondo”.
Fino
a quando, però, imparando dagli errori fatti (forse soprattutto anche per gli errori
commessi) la strada giusta appare, anche se inattesa. Come inattesa è la
possibilità che a percorrerla non sarai più solo, sebbene te lo fossi
ripromesso. A Auster accade quando incontra quella che da oltre trent’anni è la
sua seconda moglie il cui amore è diventato una presenza costante, dopo un primo matrimonio deludente ed una serie di esperienze con “ragazze mezze
matte, entrambe affascinanti e autodistruttive, ragazze a cui aveva donato il
suo cuore, ma che “non potevano o non volevano riamarti”. Quando ha incontrato,
per caso, la sua seconda moglie, Auster riconobbe in lei “non finzione … non
qualche proiezione delle tue fantasie interiori, ma una persona reale” capace
di imporsi con “la sua realtà su di te dall’istante in cui vi metteste a
parlare”.
Diario d’inverno
appare quindi come il percorso di un uomo che, a volte annaspando tra le
incertezze e gli errori, come accade a ciascuno di noi, riesce a costruire
un’esistenza che, anche tra ricadute e inciampi, posa, comunque, su una base
solida. Per questo motivo, all’imbrunire non si può che esprimere un solo
auspicio che Auster ruba all’aforista ottocentesco Joseph Joubert: Si deve morire amabili (se si può).
È proprio su “se si può” che Auster sembra puntare per la propria vita futura, ritenendo che “non c’è successo umano più grande che essere amabili fino alla fine, che sia una fine amara o no”.
Libri
che ti conducono in mondi che sai esistere, ma che – essendo lontani, non solo
geograficamente – non riescono a toccare
a fondo il tuo animo. Fino a quando la letteratura, tra finzione e realtà, non
ti spinge con forza all’interno dei bassifondi di una grande metropoli, in una
enorme discarica, dove dei bambini (i cosiddetti “niños de la basura”) trascorrono
le loro giornate alla ricerca di vetro, lattine e quanto si può riciclare,
respirando i fumi degli incendi che vengono appiccati per distruggere, insieme
con l’immondizia, carcasse di animali, soprattutto i cani sottratti agli
uccelli rapaci.
La
metropoli è Città del Messico e tra i bambini che trascorrono le loro giornate
in discarica ci sono Juan Diego e la sorellina Lupe, figli di una prostituta
che ha avuto una relazione con il boss della discarica il quale li ha accolti nella
propria baracca. Rispetto agli altri bambini Juan Diego e Lupe godono di una
posizione privilegiata, non solo perché protetti dal boss della discarica. I
gesuiti dell’orfanotrofio di Oaxaca, dove la madre fa le pulizie, vorrebbero
allontanarli dalla discarica, per sottrarli ad una vita miserevole e rischiosa.
Juan
Diego e Lupe sono due ragazzini particolarmente dotati: lui ha letto decine di
libri sottraendoli al fuoco della discarica, alcuni anche in inglese, imparando
una lingua straniera in maniera autonoma. Sono libri difficili che affrontano
argomenti filosofici e teologici che
Juan Diego legge a voce alta a Lupe la quale, grazie a quei libri, ha
una propria visione del mondo e della religione. In particolare, a Lupe non va
completamente a genio la supremazia dalla Vergine Maria rispetto alla Madonna
indigena che, a suo dire, sarebbe stata tradita dai cattolici a favore della
prima. Una questione teologica che la ragazzina, poco più che una bambina,
affronta con veemenza, manifestando il proprio rifiuto, senza mezzi termini,
verso la Madonna e ciò che questa
rappresenta.
Il
ricordo di Lupe, degli anni trascorsi alla discarica, del rapporto con i
gesuiti, sono di fatto il nostos (il
ritorno a casa) che Juan Diego Guerrero, narratore di successo, intraprende
attraverso la memoria durante un viaggio nelle Filippine, per onorare una
promessa che aveva fatto ad un giovane americano amico delle prostitute. La narrazione,
dunque, si svolge tra passato e presente, su due diversi piani temporali,
perché “Invecchiando, e anzitutto quando ricordiamo e sogniamo, viviamo nel
passato. Certe volte è lì che ci sentiamo vivi veramente”.
È
come se gli anni trascorsi negli Stati
Uniti, dove Juan Diego si è affermato
come scrittore, lo avessero sottratto
alla vita che riconoscere essere nella basura, quando al suo fianco c’era la
piccola Lupe. La bambina, a causa di un difetto congenito, riusciva ad emettere
solo suoni confusi che, tuttavia, il fratello comprendeva diventando l’interprete
della sorella, legame tra lei e il mondo.
Lupe, inoltre, sapeva leggere nella mente delle persone che incontrava e
, ad un certo punto, riusciva anche a comprendere il futuro, a capire a cosa
era destinato il fratello.
Irving
ci ha regalato un romanzo ricco di personaggi straordinari che hanno il
coraggio di fare scelte coraggiose, capaci di determinare il loro futuro e
quello degli altri. Lupe, certamente, è uno di questi personaggi. Poi ci sono
el señor Eduardo e Flor (un americano dell’Iowa che rinuncia alla vita
religiosa per amore di una trans) che ad un certo punto diventano i genitori di
Juan Diego, portandolo via da Città del
Mexico per vivere un’altra vita.
Una
possibilità, senza dubbio resa possibile dalla generosità dell’insolita coppia,
ma soprattutto dallo stesso Juan Diego, sulla base del principio assoluto homo faber fortunae suae.
Il
niño de la basura aveva, infatti,
cominciato a prendere in mano il proprio destino quando, cosa insolita nella
discarica, aveva imparato a leggere, evento fondamentale per la sua esistenza
perché, come gli dirà il senor Eduardo: «Nei
libri è racchiusa una possibilità di vita, come del resto nella tua
immaginazione. E non esiste soltanto il mondo fisico, neanche in questo posto».
Nella ricorrenza della festa della mamma, durante la quale non mancheranno luoghi comuni e commenti sdolcinati, riflettere sul ruolo della maternità oggi, in un’epoca di profondi cambiamenti, in cui imperano egoismo e individualismo, è utile, se non necessario.
Il libro di Massimo Recalcati, figura oramai nota per gli interventi televisivi, può certamente offrire spunti interessanti per contestualizzare la maternità nel nostro tempo.
Viviamo in una società in cui tutto si consuma nell’immediato, nell’ora e subito, quando invece, come scrive Recalcati “la maternità è una grande figura dell’attesa”. A cominciare dalla gravidanza, un’attesa che lo psicoanalista definisce “speciale” perché “non assomiglia a nessun’altra attesa. Non è attesa di qualcosa: di un treno o di un anniversario, di un concerto o di un contratto. La maternità è un’esperienza radicale dell’attesa perché mostra come l’attesa non sia mai padrona di ciò che attende” (pag. 25). Già durante l’attesa, le madri siamo consapevoli dell’alterità che portiamo dentro, in quanto, secondo Recalcati “rende possibile un altro mondo”.
Sarebbe illusorio credere che l’attesa si esaurisca con il parto: quando il bambino verrà alla luce inizieranno tante altre attese che ne segneranno la crescita e lo sviluppo. Un ‘attesa continua, dunque, che, dal momento del concepimento, definisce la peculiarità della madre.
Allo stesso modo, distintivo e particolare è anche l’amore materno: sentimento non genericamente offerto al mondo perché non è amore fine a se stesso o amore universale, ma “rivela che, quando si ama, si ama sempre una vita particolare, il soggetto nella sua singolarità” (pag. 65).
Se è vero che l’amore materno è incondizionato e continua ad esistere anche quando si prende atto che il proprio figlio è imperfetto e lontano dall’ideale (anzi, dice Recalcati, il figlio viene amato proprio perché imperfetto), è anche vero che l’esperienza della maternità non “è sufficiente ad appagare la propria vita” (p. 133). Per dimostrarlo, Recalcati indica il mito di Medea, vista come l’incarnazione della ribellione della donna alle regole sociali.
Lo psicoanalista spiega questo aspetto della femminilità attraverso il “complesso di Medea” . Il mito greco ci dice che “nemmeno la maternità è sufficiente ad appagare la propria vita, a compensare la perdita dell’amore, che nessuna donna può mai essere assorbita e abolita nella madre”.
Se ciò, avvenisse (ma questo è il mio punto di vista) si tradirebbe il senso proprio della maternità che, di fatto, deve essere concepita come “un’ospitalità senza proprietà di cui la vita umana necessita”. (pag. 184)
Incontro con Riccardo La Cognata, scrittore Ragusano da anni vive e lavora a Roma.
In
un momento come quello attuale in cui
ogni cosa sembra sospesa al punto che perdiamo la consapevolezza del succedersi
dei giorni e delle ore, il romanzo di La Cognata ci porta a riflettere sul
valore del tempo, argomento caro a filosofi e letterati. Da Seneca a Sant’Agostino,
passando per Orazio e Virgilio, il tempo è sempre stato considerato come un
bene prezioso, da non sciupare, perché difficilmente ci sarà restituito.
Seneca,
in particolare, invitava l’amico Lucilio a vivere il presente, l’unico tempo incontestabile,
essendo il passato già trascorso e non
avendo certezza del futuro che potrebbe anche non esserci. Da qui il consiglio
che già in precedenza il poeta latino Orazio aveva efficacemente sintetizzato nel
celebre carpe diem e che Lorenzo il
Magnifico faceva proprio con l’altrettanto noto di doman non v’è certezza.
È
quindi quello presente il tempo che siamo chiamati a vivere pienamente, ma che
cosa accadrebbe se nell’oggi fosse possibile avere consapevolezza di quello che
accadrà nel futuro? Se potessimo conoscere anche pochi istanti del tempo che
sarà? Se fosse possibile anticipare gli eventi umani con la potenza della
mente, aumentandola miliardi di volte?
La
possibilità di anticipare gli eventi umani con la potenza della mente è l’argomento
della ricerca di un neuropsichiatra americano che muore improvvisamente in un
ristorante delle campagne laziali il cui proprietario, Vasco Mattini, si lancia
in un’indagine svolta parallelamente all’amico/maresciallo, Sauro Corezzi, abituale
frequentatore del locale, significativamente chiamato “Verziere dell’orso”.
Chi
sia l’orso, tocca al lettore scoprirlo, sappia, intanto, che il cuoco/investigatore
è un personaggio schivo con tratti da misantropo. Un uomo diretto, conciso,
brutale, al punto da apparire profondamente antipatico, ma colto
(grazie alle molte letture da autodidatta) e profondamente sarcastico: “Già di
suo era pesante, ma quando lo facevano incazzare diventava semplicemente odioso”,
scrive Riccardo La Cognata (pag. 18).
Nonostante
questo caratteraccio, in merito al quale nel romanzo vengono tentate anche
giustificazioni di carattere psicoanalitico, Vasco riesce a procurarsi le
simpatie del lettore che viene coinvolto
nell’indagine investigativa che conduce alla
scoperta di una setta (quella degli Stenomeni) i cui componenti sono: Saul
Bellow, Akira Kurosawa, Athena Minerva e Hyeronimus Bosch.
Vi starete chiedendo come sia possibile, ma, trattandosi di una indagine investigativa, mi guarderei bene da svelare la fine, togliendo il piacere della lettura che alterna pagine veramente esilaranti (come l’incontro tra Vasco e il suo fornitore di verdure Poliziano Ficino per il quale il detto latino nomen omen non è assolutamente vero) a pagine di riflessioni filosofiche e musicali a colpi di scena che coinvolgono personaggi insospettabili.
Abbiamo intervistato l’autore del libro, trovate il testo dell’intervista in “Letti per voi”.
Protagonista
de “Il senso del tempo” è un cuoco/filosofo, colto e dai raffinati gusti
musicali, misantropo, ma capace di tessere forti relazioni di amicizia. Perché
proprio un cuoco?
Potrei
dire che tra i miei hobby, la cucina (attiva e passiva) è ai primi posti della
classifica. Ma la verità è che il Senso del Tempo è stato concepito in un
periodo di “quarantena” lavorativa in Asia di quasi quattro mesi. Per un certo
periodo, mentre infuriavano i monsoni e non si poteva uscire dall’hotel dove
alloggiavo, uno dei pochi esseri umani con cui interagivo era lo chef del
ristorante dove pranzavo e cenavo tutti i giorni. Un personaggio particolare, tirannico
con i sottoposti, ma anche generoso e soprattutto dotato di una rara intelligenza.
Piacevoli le conversazioni con lui e anzi siamo ancora molto amici. Però a
differenza di Vasco, a lui piace farsi chiamare chef e soprattutto la sua è
un’intelligenza molto pratica e quindi meno incline alle speculazioni
filosofiche. Quello è un tratto personale che ho innestato in Vasco, così come
una certa crepuscolarità e la tendenza a trascendere, anzi al trascendente. In
generale, e al di là delle suggestioni del momento, mi intrigava però dare a
questi moderni alchimisti che sono i cuochi, una “forma” e uno scopo diversi da
quelli che vediamo in televisione. E qui potrei continuare con i ricordi della
cucina di mia nonna, di mio nonno pasticcere sopraffino ecc.
La
vicenda ruota intorno alla morte di uno scienziato avvenuta nel ristorante di
Vasco. Uno scienziato che indaga sul tempo perché vuole, attraverso l’uso,
rivelatosi fatale, di sostanze lisergiche conoscere il futuro. Com’è nata
questa idea?
Una
sera di tanto, ma tanto, tempo fa mi trovavo a Venezia e andavo a zonzo per le
calli avvolte da una fitta nebbia autunnale. Incontro per strada un tizio
sudamericano che si era perso. Era il cameriere di una nave da crociera in
libera uscita. Mi chiede un’indicazione e siccome vado nella stessa direzione
gli dico di seguirmi. Comincio a scambiare qualche parola con lui e poi d’un
tratto semplicemente sparisce, inghiottito dalla bruma. Ogni tanto, continuo a
chiedermi se magari non sia stata un’allucinazione o se il tizio non sia stato
risucchiato da una crepa nello spazio-tempo. Si sa, Venezia è una città
misteriosa. Ma l’idea è nata da quell’episodio bizzarro. Non so perché o come
mi sia ritornata in mente mentre stavo a Colombo, ma da lì ho cominciato a
fantasticare e siccome in quel momento mi trovavo in balia del tempo, sospeso
in una bolla di attesa come oggi tutti gli italiani, ho cominciato a sommare
gli elementi e a dargli una linea, raccontandomi una storia che fosse coerente
con quella coazione all’attesa che provavo. La parte sull’espansione sensoriale
è frutto di altre letture personali alcune dotte, altre un po’ meno!
Nel
corso della propria indagine (che svolge parallelamente a quella dell’amico
maresciallo Sauro) Vasco s’imbatte in una setta particolare. Da cosa nasce
questo interesse per il mondo delle sette?
Il
Senso del Tempo gioca con il modello narrativo dei classici greci, che siccome
non sapevano come far finire i loro drammi, facevano intervenire sempre un deus
ex machina. Insomma, i destini degli uomini erano tessuti da divinità i cui
pensieri o trame erano imperscrutabili per i miseri mortali. Quale metafora
migliore per uno scrittore che dà vita ai personaggi e poi gliela toglie nel
finale? Comunque, la setta degli Stenomeni, inventata di sana pianta, mi
sembrava la logica declinazione di questo concetto, cioè dell’eterodirezione
degli uomini. Zero interesse personale per le sette, che trovo limitate e
limitanti, parecchio invece per l’esoterismo, ma inteso come strumento per
raggiungere la cognizione di noi stessi, cioè della nostra interiorità. Una
forma di algoritmo introspettivo che mi intriga.
Possiamo
ritenere “Il senso del tempo” il primo di una serie di romanzi di
“investigazione psicologica” con Vasco Mattini protagonista?
Potete e dovete! Vasco non vede l’ora di avventurarsi in altri meandri cognitivi, dalla fisica, alla matematica, alla musica alla…va beh lasciamo i dettagli alla prossima investigazione … già conclusa!
“Quello
che si racconta nei libri può anche accadere davvero, ma quello che è accaduto
veramente non può essere scritto in nessun libro”: è la postilla con la
quale Cavezzali chiude il proprio
romanzo con l’intento, pensiamo, di
dissuadere il lettore dalla convinzione
di avere aggiunto dei tasselli di verità a fatti apparentemente lontani dal nostro tempo, ma che tuttavia
molto ci dicono su questi anni e sul mondo in cui viviamo.
Tutto
ha inizio nel secolo scorso, in un’America meta di migranti, molti provenienti
dall’Italia, inseguendo il sogno di una vita migliore possibile a chiunque, ma
non a tutti. Tra gli italiani giunti in America, dopo mesi di navigazione
ammassati su una nave in condizioni estreme (che senza dubbio riportano a
quelle che vivono i migranti che dal nord Africa cercano di raggiungere le
nostre coste) c’è Mario Buda (che in America diventerà Mike Boda) il quale si
ritrova a lavorare in una fabbrica di cappelli. Qui Buda farà esperienza dello
sfruttamento della classe operaia da parte del Capitalismo per il quale il
lavoro non potrà essere fermato neanche davanti alla morte di un uomo. Un tema
antico e sempre attuale, ma che nell’America del primo Novecento porterà alla
nascita dei primi gruppi anarchici e dei primi attentati terroristici.
A
questi è legato il nome di Mario Buda, al punto che ancora oggi negli Stati
Uniti l’espressione Boda’s bomb è diventata quasi gergale per indicare una tipologia di
attentati (quelli con le autobombe utilizzate, ahinoi, ancora oggi
dall’Isis). La ricerca di Matteo
Cavezzali – da cui il romanzo trae spunto – nasce proprio dalla lettura di un
saggio americano sul terrorismo moderno di cui Buda viene considerato
l’iniziatore.
Il
risultato dell’inchiesta giornalistica di Matteo Cavezzali è un romanzo storico
dove accanto a personaggi realmente esistiti (come Sacco e Vanzetti, Galleani)
si affollano personaggi creati dalla
fantasia dell’autore il quale dà loro voce. Il risultato è una sorta di Spoon River dove tante voci narrano di sé e dei protagonisti, regalandoci
un racconto corale intenso e profondo. Cavezzali dà prova di come il
giornalismo d’inchiesta possa condurre ad una creazione artistica in cui
“storia ed invenzione” contribuiscono alla nostra conoscenza del passato, ma
senza fare luce sulla verità profonda degli eventi narrati.
Molti,
infatti, gli interrogativi a cui –
necessariamente – Cavezzali non ha potuto rispondere (non toccava certamente a
lui), sulle ragioni per cui Buda abbia potuto – dopo l’attentato di cui è stato
ritenuto l’autore – tornare in Italia e
vivere tranquillamente una vita normale, di marito e padre. Una normalità quasi
“regalata” che, ci dice Cavezzali, sembra anomala nell’Italia del secondo
dopoguerra dove gli americani erano significativamente presenti.
Un
dubbio, quindi, s’insinua nella mente del lettore: chi ha voluto l’attentato?
Gli anarchici o altri? Chi può dire che non sia stato un elemento di
distrazione in un’America messa in crisi dalle bombe che ne minacciavano la
sicurezza dopo la morte di Sacco e Vanzetti, la cui esecuzione fu voluta
contro ogni ragione e prova di innocenza?
La
niña mala che incontriamo già nel
titolo è solo in parte la protagonista femminile del romanzo che dal Perù all’Europa, passando per
Cuba e il Giappone, attraversa la storia del secondo Novecento, vista con lo
sguardo di Ricardo Somocurcio, amante disperato e ripetutamente deluso.
La
storia ha inizio “un’estate favolosa” del 1950 nel quartiere Miraflores di Lima
dove l’adolescente Ricardo trascorre le sue giornate tra i bagni e le feste in cui fa la sua comparsa, come un terremoto,
il mambo che sostituì tutti gli altri
balli. Con un ritmo brioso e, apparentemente leggero, Vargas Llosa racconta
quell’estate che segnerà profondamente la vita di Ricardo.
Infatti,
proprio come un terremoto, nella vita di Ricardo irrombe anche Lily che si presenta
come una ragazza cilena (ma che, scopriremo, cilena non è) capace di ispirare sentimenti
amorosi e fantasie erotiche tra i ragazzi del quartiere, ma, al tempo stesso, suscitando
critiche, maldicenze e invidie da parte delle ragazze, castigate e serie,
rispetto alla presunta cilenita,
vista come una rivale imbattibile.
Ricardo
sogna di vivere a Parigi, meta raggiunta dopo la laurea dove, inaspettatamente
incontrerà per la seconda volta, la cilenita
di cui non aveva avuto notizia dall’estate favolosa del 1950.
Tanti
anni sono trascorsi da allora e Ricardo aiuta, pur non essendo coinvolto direttamente, dei giovani
peruviani che sognano di realizzare nel loro Paese la rivoluzione castrista. Un
sogno che finirà tragicamente per gli amici di Ricardo e che viene
strumentalizzato dalla niña mala per potere lasciare il Perù,
per lei una prigione, simbolo di miseria
e privazioni che per tutta la vita cercherà di rimuovere, rifiutandosi di farvi
ritorno e tagliando ogni legame con la famiglia di origine.
La
niña mala (il cui vero nome
scopriremo solo verso la fine del romanzo) si lancerà in avventure spesso dolorose che le lasceranno segni indelebili
nel fisico e nella mente. Il disperato
bisogno di raggiungere quella ricchezza che
va ben oltre la sicurezza economica la porterà a condividere la vita con diversi
uomini (sposati per interesse e puro calcolo) da cui si allontanerà per trovare
rifugio sicuro in Ricardo, sempre fedele ad un amore tormentato e rubato,
concesso da una donna che, apparentemente, solo apparentemente, lo disprezza,
perché lui pichiruchi (di poco
valore) vive da piccolo borghese, appagato
del proprio lavoro, soddisfatto per avere realizzato il sogno adolescenziale di
vivere a Parigi dove ha comprato un appartamento e raggiunto una discreta
affermazione professionale come interprete e traduttore.
“Io
rimarrei soltanto con un uomo che fosse molto, molto ricco e potente. Tu non lo
sarai mai, per disgrazia”: dirà la niña
mala a Ricardo, mentre si sta separando, ancora una volta, da lui.
Sarebbe
riduttivo leggere le avventure della
cattiva ragazza come il racconto
della disperata corsa verso l’affermazione sociale di una ragazza nata povera. Giacché
il romanzo offre lo spunto per soffermarsi sulle trasformazioni sociali e
culturali dell’Europa tra gli anni Sessanta e Ottanta, per condividere con il
lettore il sogno di democrazia di una parte della società peruviana che,
divenuta parte attiva del progetto di modernizzazione, dovrà fare i conti con una cocente delusione e
col tradimento della classe politica.
Il
romanzo ci spinge anche ad interrogarsi
sull’Amore (uso consapevolmente la maiuscola).
In
particolare, sull’Amore vissuto con cieca abnegazione, contro ogni ragione, con
fedele dedizione: “continuavo a essere
innamorato di una pazza, di un’avventuriera, di una donnetta senza scrupoli con
cui nessun uomo, e io meno di chiunque altro, avrebbe potuto mantenere una
relazione stabile senza finire calpestato”.
Il
lettore a questo punto non può non chiedersi cosa rende meritevoli d’amore, quale strana
alchimia rende possibile perpetuare un legame indissolubile con chi elargisce
dolore e umiliazioni. É sempre Ricardo a rispondere quando è costretto a
riconoscere che “c’era in lei qualcosa che era impossibile non ammirare, per
quei motivi che ci portano ad apprezzare le opere ben fatte, anche se perverse”.
Sarebbe facile, a questo punto, interpretare
quel “opere ben fatte” come una categoria estetica, pagando così un facile
tributo alla superficialità propria del nostro tempo.
È,
invece, molto altro che tocca al lettore
scoprire.
Holt
è cittadina inesistente, che l’autore tuttavia colloca in Colorado, i cui
abitanti vivono semplicemente, senza inseguire grandi sogni, alle prese con
problemi comuni del quotidiano.
Tom Guthrie è un insegnante di Storia alle prese
con la gestione familiare perché la moglie, Elle, vive una profonda crisi
personale che la porterà ad allontanarsi dalla famiglia e dai figli, Ike e
Bobby, due fratelli “quasi gemelli”, di dieci e nove anni.
Victoria
Roubideaux è una sedicenne (alunna di Tom) che la madre chiuderà fuori di casa
perché incinta di un ragazzo che ha conosciuto d’estate e di cui non vuole
rivelare l’identità. Rimasta senza un posto dove andare, chiederà aiuto alla
sua insegnante, Maggie Jonas la quale l’accoglie nella propria casa dove vive
con il vecchio padre. L’anziano uomo, con problemi di lucidità, non accetterà la presenza della ragazza che Jonas farà ospitare dai fratelli McPheron, due
uomini rudi, che vivono in campagna, impegnati con la terra e il bestiame. I
due anziani fratelli riveleranno una
profonda sensibilità, accogliendo Victoria con affetto genitoriale , cercando di darle tutto ciò di cui ha bisogno,
attenti e preoccupati della sua incolumità, soprattutto quando il ragazzo
tornerà a cercarla.
La
narrazione si svolge seguendo la quotidianità di ciascuno dei personaggi, una quotidianità, spesso dura e dolorosa, fatta di
impegni e incontri non sempre piacevoli.
Ike
e Bobby, in particolare, trascorrono parte della loro giornata insieme,
distribuendo i quotidiani prima di andare a scuola, preoccupati per la “malattia”
della madre sulla quale vigilano in silenzio e che intenderebbero “curare”,
regalandole un profumo e una crema.
Tema
di fondo del romanzo è l’inizio della vita, nei suoi diversi aspetti e momenti,
come emerge dalle vicende dei singoli personaggi: Victoria Roubideaux darà la
vita a una bimba, mentre i due vecchi
agricoltori McPheron saranno
protagonisti di un nuovo inizio, impensabile e improbabile, di nonni e padri. Tom
si affiderà a un nuovo amore e i suoi figli attraverseranno il passaggio a nuova
fase che li porterà lontano dall’infanzia.
“Canto
della pianura” fa parte di una trilogia (“Benedizione” e “Crepuscolo” sono gli
altri due romanzi) i cui racconti sono ambientati a Holt, unico elemento che
lega i romanzi i cui personaggi e le cui vicende sono completamente diverse. Lo
stesso autore, mancato nel 2014, la definiva una trilogia larga, sciolta,
slegata che, pertanto, può essere letta
senza un ordine prestabilito.
Per
quanto riguarda “Canto della pianura” il
titolo richiama il termine inglese Plainsong il cui significato è “canto piano”.
Si tratta di una forma di canto, diffusa in epoca medievale, senza
accompagnamento musicale, come il Canto Gregoriano. Plainsong, comunque, indica
anche una melodia semplice e sobria, ma nel
romanzo richiama l’immagine della pianura, dello svolgimento lineare di
vite comuni, ma emblematiche di come sia possibile aprirsi alla vita.
Diciamolo subito, è un romanzo che parla di amore. Di amori incontrati all’improvviso e inaspettatamente; di amori lasciati andare, ma attesi per anni; di amori cercati e trovati, apparsi come eterni, ma fugaci; di amori che sono rimasti sospesi, ma che non potranno mai diventare realtà.
Samuel,
un vecchio professore in pensione, una mattina sale su un treno a Firenze
diretto a Roma per tenere una conferenza
e trascorrere del tempo con il figlio Elio,
giovane promettente musicista. Davanti a lui, si siede una giovane donna,
Miranda, con il suo cane di compagnia che infastidisce Samuel il quale cerca
rifugio nel libro che si è portato dietro, ma che non riuscirà a leggere perché
lei comincerà a parlargli. Durante il viaggio l’anziano professore e la giovane
donna si racconteranno dando così inizio ad una storia d’amore che diventerà
compiuta ed adulta. Nonostante il “Tempo”, distanza impietosa che separa i due:
Samuel è consapevole che Miranda ha più o meno l’età di suo figlio, ma la
passione e l’amore che legherà i due non può essere frenata dall’età.
“Tempo”
è il titolo della prima parte del romanzo dove la voce narrante è proprio Samuel
il cui sguardo ci porta in giro per Roma e ci fa scoprire l’intensità della
passione che in meno di dodici ore lo legherà a Miranda.
“Cadenza”,
“Capriccio” e “Da capo” sono i titoli delle altre tre parti in cui si articola
il romanzo che, di fatto, è il sequel di
“Chiamami col tuo nome” nel quale Andé Aciman raccontava l’amore tra due
uomini, Elio e Oliver.
Elio,
figlio di Samuel, oramai affermato pianista e Oliver, professore universitario
a New York prossimo, padre di due figli al College, racconteranno le loro vite
rispettivamente in “Cadenza” e “Capriccio” per poi ritrovarsi in “Da capo”,
nuovamente estranei e incapaci di riportare indietro il tempo.
Perché
il tempo è impietosamente traditore e non può ridare mai indietro quanto
abbiamo lasciato andare e quando pensiamo di potere riacciuffare quello che non
siamo riusciti a portare a compimento rischiamo di essere delusi.
Sarà
così anche per Elio e Oliver o i due uomini avranno costruito qualcosa, loro
malgrado e nonostante le loro scelte?
Scrive
ad un certo punto Aciman: “Il fatto è che la magia di una nuova
conoscenza non dura mai abbastanza. Alla fine vogliamo sempre chi non possiamo
avere. Sono quelli che abbiamo perso o che non hanno mai saputo della nostra
esistenza a lasciare il segno. Gli altri ne sono solo una misera eco”.
Ma
è veramente così? È questo il messaggio che vuole lasciarci l’autore?
Personalmente (e invito i lettori ad avviare la discussione, se e quando lo
riterranno opportuno) ritengo di no: anche perché la storia d’amore tra Samuel
e Miranda chiude in maniera circolare il romanzo e lascerà un segno concreto in un piccolo Oliver, frutto
del loro amore.
La
storia d’Italia è fatta di delitti irrisolti, stragi
di stato, trame occulte tessute da inafferrabili
tessitori che pesano vergognosamente
sulle vittime, sui loro familiari e sui cittadini tutti che avrebbero diritto a
conoscere la verità.
Tra queste pagine oscure vi è quella della morte di Pier Paolo Pasolini,
intellettuale scomodo dell’Italia del Novecento, che con coraggio puntava il
dito contro una certa classe politica responsabile, più o meno diretta, di
delitti rimasti senza mandanti, svolgendo così pienamente il ruolo di coscienza
critica della società del suo tempo. Con questa chiave di lettura presento
Pasolini ai miei alunni, cercando di mostrare loro il molteplice impegno dell’uomo
che fu narratore, poeta, regista, giornalista e che, in quanto tale, deve
essere conosciuto e non per il suo orientamento sessuale.
Sull’omicidio
Pasolini indaga, nell’ultimo romanzo di Lugli, il giovane cronista di nera
Marco Corvino (“come un piccolo corvo”, è costretto a precisare agli
interlocutori che ne storpiano il cognome), praticante del quotidiano “Paese
Sera”, finanziato dall’allora Partito Comunista che, come tanti altri, preferì
liquidare il delitto Pasolini come un delitto di sesso, maturato negli ambienti
omosessuali. Sebbene gli elementi emersi nel corso delle indagini dimostrassero
che Pino Pelosi non aveva agito da solo, che non era stato lui a pestare a sangue
Pasolini, né aveva guidato l’auto che ne aveva di fatto causato la morte,
travolgendolo.
È
legittimo, quindi, chiedersi le ragioni per cui siano stato ignorate le prove emerse anche in sede dibattimentale e
indicate nelle motivazioni della sentenza di primo grado del Tribunale per i
minorenni di Roma, presieduto da Carlo Alberto Moro, fratello dello statista
ucciso, e che costituiscono l’appendice al romanzo.
Sebbene
concepito e sviluppato come un romanzo, “Il
giallo Pasolini” assume il valore di un’inchiesta giornalistica, pericolosa e inquietante,
che un giovane praticante di nera (che indubbiamente molto ha in comune con
Lugli) svolge di propria iniziativa, rischiando il licenziamento, ma anche la
propria stessa vita. Indagando sul delitto, infatti, Marco Corvino si muoverà
alla scoperta della Roma notturna degli anni Settanta, tra omosessuali,
spacciatori, criminali, scoprendo un
mondo altro al tempo stesso minaccioso e conturbante, respingente e
affascinante che rischia di travolgerlo.
Un’inchiesta
giornalistica, dicevamo, ma ben contestualizzata storicamente attraverso l’incontro
con personaggi quali Nino Marazzita,
avvocato di parte civile, e Oriana Fallaci, già giornalista di fama, che in un’inchiesta sull’Europeo, indicando testimoni rimasti anonimi, escludeva che Pino
Pelosi avesse agito da solo.
Nella
ricostruzione storica di quegli anni, Lugli non trascura il racconto del conflitto
tra gruppi di studenti neri e rossi, spesso trasformato in scontri armati,
violenti e sanguinosi, nei quali il praticante di nera si lascia coinvolgere,
espressione comunque di un’appartenenza politica e ideologica a cui gli studenti delle generazioni successive
abbiamo guardato con nostalgia, sentendoci esclusi dall’impegno civile, senza però sapere costruire una valida alternativa.
Per
chi ha amato, e continua ad amare, Pasolini è forte l’amarezza per un delitto
rimasto senza mandanti e su cui lo Stato avrebbe il dovere morale di fare
chiarezza. Perché, diceva Pasolini nel “Pianto della scavatrice”, “Solo l’amare,
solo in conoscere conta. Non l’aver amato, non l’aver conosciuto”.